Appunti e spunti…

Papa Benedetto, Benedetto Papa

Vi siete accorti che ora i giornali si chiedono anche quale tipo di scarpe e di occhiali da sole porti il Papa? Le curiosità sono banali, ma indicano un interesse nuovo su Papa Benedetto, che, chiamato a succedere a un gigante come Giovanni Paolo II, sta conquistando l’attenzione e la simpatia di tutti, sorprendendoci con un modo di fare semplice e familiare. Notano i suoi abbigliamenti, dimenticando che si erano già visti in passato; ironizzano sul ciuffo di capelli bianchi, che la brezza di Piazza San Pietro mette sempre fuori posto. Ma c’è anche chi si accorge che Papa Benedetto parla in maniera chiara, semplice, diretta, comprensibile. Un giornalista ha detto che la gente andava prima a ‘vedere’ Giovanni Paolo II, mentre ora va ad ‘ascoltare’ Benedetto. Vale la pena starlo a sentire, vale la pena seguire le sue omelie e le sue esortazioni domenicali, all’Angelus o al Regina Coeli. Per questo tanti vanno in Vaticano, più numerosi che mai. Da quell’incontro, ognuno porta via qualcosa di ricco e di utile, una parola buona che ci accompagna nella nostra vita. Papa Benedetto è proprio un benedetto Papa!

La parolaccia

Dicono che nell’Inghilterra vittoriana, se un bambino usciva con una brutta parola, lo si rimproverava dicendo: «Vergogna! Se ti sentisse la Regina!» Da noi, ora, nella stessa situazione, si dirà: «Ma che bravo. Il Cavaliere sarebbe fiero di te!»

La campagna elettorale finita da poco ci ha propinato la solita serie di manifestazioni di malcostume, normali in queste circostanze: bugie in abbondanza, promesse basate sul vuoto, insulti contro le persone degli avversari, scene di isterismo polemico. A tutto questo eravamo già abituati anche in passato.

Questa volta, per migliorare le cose, si è aggiunto l’uso della parolaccia, trasmessa in diretta e ripetuta, con gusto, da annunciatori e annunciatrici televisive. Bello! Educativo! Stavo per dire ‘edificante’, ma sarebbe stato forse troppo.

A chi si riempie la bocca con la proclamazione dei tradizionali valori cristiani, dovremmo ricordare che un primo livello di etica cristiana è rappresentato dalla buona educazione. E, un passetto più avanti, potremmo metterci anche la decenza nel parlare. A chi diceva parolacce, le nostre nonne lavavano la bocca col sapone verde, perché ricordassero la lezione. C’è qualcuno che si offre volontario per andare a lavare la bocca dei nostri politici parolacciai?

Il Codice da Vinci

Fino a qualche mese fa, la domanda da farsi era: «Hai letto il Codice da Vinci?» Tra qualche settimana, si cambierà così: «Hai visto il Codice da Vinci?» Sono cose che, si sa, vanno fatte, e le polemiche in corso da mesi sono una maniera furba per far crescere l’interesse e la curiosità di lettori e spettatori.

Faccio due osservazioni. La prima: qualcuno dice: «Anche se le affermazioni del libro sono vere, non alterano la mia fede». Ma come si fa a credere in un sistema basato sull’inganno e la prevaricazione? E che fede posso avere in un Cristo bugiardo e in apostoli falsari?

La seconda: parlar male del cristianesimo, della chiesa cattolica e dei cattolici va di moda, si può fare senza rischio e lo si fa volentieri. Inventando storie, falsificando dati, seminando dubbi e piantando certezze bugiarde. Con gli altri non si può fare. Con noi sì.

E allora mi chiedo: devo forse accettare gli insulti? Fa parte anche questo del ‘porgere l’altra guancia’? Non lo so, non ne sono sicuro. Ma di una cosa almeno sono certo: non ho letto il libro e non vedrò la pellicola. Quelli che vogliono guadagnare insultando la mia fede, non vedranno i miei soldi.

Principi e presidenti

L’avvocatessa del principe in carcere racconta che il suo cliente si comporta con una dignità “veramente da re”. Ad essere sincero, non ho molta esperienza di come sia la dignità che dovrebbe avere un re. Vivendo in una repubblica, le teste coronate le conosco solo attraverso le indiscrezioni dei settimanali, e di dignità ne ho vista sempre poca, a parte, si capisce, qualche buona eccezione, tanto più sorprendente quanto rara.

Ma il pensiero che quel principe, con il suo modo di vivere, di parlare e di fare gli affari, avrebbe potuto essere il capo dello Stato italiano mi mette paura. Vien solo da dire: “L’abbiamo scampata bella!” Che poi la dignità, qualunque essa sia, salti fuori solo ora, fa un po’ pena: sta a vedere che è necessario finire in galera per mostrarsi dignitoso?

Non credo che possiamo lamentarci troppo dei nostri presidenti, soprattutto degli ultimi. E almeno, con loro, c’è sempre la consolazione che, dopo sette anni, ne possiamo prendere un altro.

Viva l’Italia

Una vittoria come quella della nazionale di calcio fa sempre piacere, anche a chi di calcio si interessa poco. Quando succede, ci scopriamo uniti, patriottici e persino innamorati della nostra bandiera. Neppure il chiasso della festa dà troppo fastidio: chi non è riuscito a dormire, quella notte, può pensare di aver dato un suo piccolo contributo al trionfo nazionale.

Viene da chiedersi quali altri eventi possano farci sentire uniti e vicini così, capaci di soffrire e lottare insieme, per poi rallegrarci insieme del successo conquistato. In politica, riusciamo solo ad essere divisi, anche fuori dei tempi elettorali, in polemiche che vanno avanti senza fine, e spesso senza nessun costrutto. Lavorare insieme, per conquistare qualche successo come nazione che cresce, va avanti e crede nei valori della persona umana, non sarebbe una cattiva idea. Per questo tipo di vittorie varrebbe la pena di sventolare ancora la bandiera, senza retorica nazionalista ma come segno di unità vera. Vogliamo tenere da parte le bandiere comperate in questi giorni? Potrebbero essere ancora utili. Non si sa mai.

Fanesi e fanatici

Una cosa la sappiamo bene tutti: il nome della nostra città, Fano, viene dal latino “fanum”, che vuol dire “tempio” e faceva riferimento al famoso tempio della dea Fortuna, che si trovava in questo centro ai tempi romani. Quello che invece non tutti sanno è che la parola “fanatico”, con il derivato inglese, ormai di uso universale, “fan”, viene proprio da “fanum”, per indicare il bigotto, l’esageratamente attaccato al tempio. Oggi potremmo usare il termine “fondamentalista”.

I nostri sono tempi di fondamentalismo, soprattutto religioso, che parte da una chiara affermazione di principio: noi abbiamo ragione, gli altri hanno torto; e dato che noi abbiamo ragione, noi possiamo fare e dire quello che ci pare, gli altri no. In un passato ormai lontano, anche noi la pensavamo così, e ci sono voluti anni e secoli per capire meglio e di più. Oggi, quando accogliamo quelli che vengono a noi da lontano, almeno un piccolo servizio a loro e a noi stessi lo potremmo fare, con una semplice raccomandazione: chi vuole stare con noi ed essere dei nostri, deve diventare “fanese” e lasciare il “fanatico” fuori città.

Religione e violenza

La polemica sulle parole pronunciate da Papa Benedetto a Ratisbona ha raggiunto livelli mondiali. La maggior parte di quelli che sono scesi in strada per protestare non sanno cosa il Papa ha detto, ma sono stati indottrinati da zelanti e ignoranti predicatori, ben felici di soffiare sul fuoco di polemiche inutili, tanto per alimentare il loro complesso di persecuzione e di inferiorità. Centinaia di migliaia di persone hanno insultato il Papa in tutti i modi, distrutto edifici e bruciato chiese, tanto per dimostrare al mondo che la loro è una religione non violenta.

Il rischio di questa storia, che ormai si ripete a ritmi costanti con un copione che ormai stanca e non fa più nemmeno ridere, è che alla fine tutti saranno convinti che “con loro non si può parlare”. Se prendessimo seriamente la loro sensibilità, dovremmo non solo stare attenti a come si parla, ma anche nascondere la “Divina Commedia”, perché Dante ha sistemato Maometto all’inferno! Un’ultima raccomandazione: attenzione alle barzellette, che potrebbero essere anch’esse offensive. E non ci resta che sperare che tra i carabinieri non ci siano dei musulmani.  

Chi ha bisogno di Milingo?

Il povero Mons. Milingo si è sentito in dovere di rinverdire un po’ l’interesse della stampa che lo aveva dimenticato. Per fare questo, ha riciclato la sua sposina coreana e si è messo a promuovere un’idea nuovissima e tanto ma tanto originale: far sposare i preti! Non ci aveva pensato nessuno, prima di lui, e ci voleva tutta la fantasia della sua mente brillante per arrivare a tanto! In passato, si dava da fare soprattutto con il diavolo, presente dappertutto, “anche in Vaticano”, amava ripetere. Ma lui ha un vantaggio sugli altri originali, perché, essendo vescovo, può riprodurre nuovi vescovi e così cominciare una chiesa tutta sua.

Purtroppo per lui, dopo poche settimane, anche l’interesse per la sua nuova chiesa è svanito. Nessuno sente il bisogno delle sue esternazioni e dei suoi gesti più patetici che clamorosi. Chissà perché c’è sempre gente che, con la scusa del grande amore a Dio e alla Chiesa, deve cercare chiasso e pubblicità: non conversione, ma clamore; non correzione fraterna, ma lettere aperte. No: il mondo non aveva bisogno delle nuove idee del povero Milingo, e nemmeno Fano ha bisogno di tante ciarle locali, che ci arrivano dal pulpito dei giornali.

Frate Cipolla e i sapientoni di oggi

In una novella del Decamerone, Boccaccio descrive un certo Frate Cipolla, predicatore di successo, il quale, per abbindolare i suoi ascoltatori aveva promesso di mostrare loro una piuma caduta dalle ali dell’Arcangelo Gabriello, al momento in cui si era recato a Nazareth per annunciare a Maria la sua maternità.

Boccaccio raccontava queste cose per far ridere. Ora c’è gente che racconta roba del genere, con la pretesa di presentare le ultime scoperte scientifiche. Prima era tornata fuori la leggenda del Graal. Poi c’era stato quel nuovo vangelo, detto di Giuda, per mettere a posto le cose che i vangeli veri non avevano chiarito del tutto. Ora abbiamo la tomba di famiglia di Gesù, con tutte le bare ben ordinate, a partire dalla sua e poi, tutte bene in fila, quelle di sua moglie, parenti stretti e figlio. Il quale figlio, ovviamente, era stato chiamato Giuda, in ricordo dell’amico preferito.

Sono tutte cose risapute, che il mondo scientifico aveva già scartato come pure falsificazioni. Ma questo non impressiona nessuno. La stampa ci si butta con entusiasmo e cerca di dare credibilità a panzane, che non sarebbero prese in considerazione neppure dagli imbonitori delle fiere di paese.

Ma così va il mondo. Ora non ci resta che da aspettare, per vedere quali nuove trovate inventeranno i nuovi Frate Cipolla del secolo ventunesimo. Naturalmente, solo per farci ridere.

Talebani in casa nostra

Le imprese dei fanatici Talebani dell’Afganistan mettono paura. Ci consoliamo pensando che sono lontani e che, in fondo, appartengono a un altro mondo. Un mondo ancora primitivo, non toccato dalle idee democratiche, di rispetto e di tolleranza, che regolano le nostre società occidentali. Ma poi ci troviamo di fronte ad episodi come quelli delle minacce a Monsignor Bagnasco, reo di aver espresso il pensiero cristiano su alcuni delicati problemi che esistono nella nostra società. Dopo un po’ si è aggiunto un ragazzotto in cerca di affermazione, che ha voluto usare la sua grande autorità morale per criticare Papa e Chiesa e Vescovi, tutti incapaci di capire la realtà e legati a ideologie del passato. Così ci siamo resi conto che anche noi abbiamo i nostri Talebani, altrettanto fanatici e intolleranti, grossolani nelle espressioni e incapaci di rispettare le opinioni altrui. Purtroppo, di fronte a quest’ultimo episodio, ci si è messo anche “L’Osservatore Romano”, che ha parlato addirittura di “terrorismo”. Troppo onore, signor Direttore: ai tempi di Volpini buonanima sarebbe bastato un trafiletto ironico come sapeva scriverli lui. A reagire in modo esagerato si rischia di mettersi al loro stesso livello! Gli ultimi Papi hanno parlato spesso dell’urgenza di creare una civiltà dell’amore. Ce n’è più bisogno che mai, per contrarrestare queste ondate di odio, che inquinano le coscienze della buona gente, come le masse di liquame inquinano le acque limpide del mare.

E ci mancava solo questo

L’anticlericalismo nostrano, dopo un grande sviluppo nell’epoca che seguì l’unità di’Italia, era uscito di moda in gran parte del secolo 20° ma è poi tornato in voga sotto la guida dei validi pensatori di stampo radicale. Per loro, ogni occasione è buona. Anche un terremoto può servire per presentare la proposta di togliere i soldi alla Chiesa Cattolica. Come nella vecchia barzelletta di Pierino: dite quello che vi pare, io penso sempre lì.

Ma ora ci si sono messi di mezzo i belgi. Addirittura un parlamento intero che si mette insieme per decretare quello che, secondo i legislatori di quel paese, il Papa può o non può insegnare, quello che deve o non deve dire. Meno male che ora il mestiere di Papa diventa più facile. Da ora in avanti, invece di ascoltare la Parola di Dio e di scrutare i segni dei tempi, alla luce della millenaria tradizione della Chiesa, basterà chiedere ai parlamentari belgi cose ne pensano. Vien da pensare a quel bel detto francese: “Le ridicule ne tue pas – Il ridicolo non ammazza” … Magari è anche vero, però fa fare certe figure!

Anche questa è una moda

Da qualche parte, accade che alcune persone scrivono al loro parroco, per chiedere che il loro nome sia cancellato dai registri parrocchiali. Non sono più cristiani, e vogliono che il ricordo di quel gesto oltraggioso che è stato perpetrato su di loro quando non capivano niente – il battesimo – sia del tutto eliminato. Il bello è che queste richieste vengono presentate con un formulario già fatto, nel quale basta aggiungere il nome, la data di nascita e poi la firma. Facile e semplice. Ma anche leggermente strano. Perché quando qualcuno si rende conto di aver ricevuto una imposizione da altri, dovrebbe poter esprimere il proprio pensiero in maniera autonoma e personale. E invece usa un formulario preparato da altri, senza nemmeno il pudore di trascriverlo a mano o macchina propria. Non c’è dubbio: il cammino verso l’indipendenza di scelta è lungo, e sembra che quelli che vanno avanti firmando lettere circolari scritte da altri abbiano preso la direzione opposta.

Discutevano su chi fosse più grande

Fa un po’ tenerezza rileggere nel Vangelo quale fosse la preoccupazione dei discepoli di Gesù, proprio mentre Egli saliva a Gerusalemme ed aveva annunciato la passione imminente. Cose che succedevano allora e, in fondo, i poveri pescatori si chiedevano chi di loro contasse di più proprio allora. Facevano un confronto immediato e pensavano a una possibile carriera. Li vediamo litigare per questo e, sì, ci fanno proprio un po’ tenerezza.

Adesso non ci sono discussioni a proposito di grandezze: si sa già chi è il migliore, e addirittura il migliore degli ultimi centocinquanta anni. Una sicurezza del genere facilita il lavoro degli storici, che domani non dovranno compiere ricerche o studiare le conseguenze di certe scelte politiche. La sentenza è già stata data, anche se, duole dirlo, dal diretto interessato. Facendo un confronto con l’atteggiamento dei discepoli di allora, possiamo sentire, ancora una volta, una certa tenerezza. Solo che a raddrizzare le idee dei discepoli ci ha pensato direttamente Gesù. Le idee patetiche di oggi chi le raddrizza?

Saranno tutti così?

Ho letto che una onorevole, in un momento di grande ispirazione, è uscita in una frase del genere: “Forse i preti sono contrari all’aborto, perché hanno paura di restare senza bambini”. L’allusione è evidente, e sembra dare per assodato che tutti i preti sono pedofili. Quello che è il tristissimo comportamento di qualcuno viene quindi attribuito a tutti. Sarebbe inutile tornare a spiegare, con i fatti in mano, che quello che sembra essere una colpa presente solo nella Chiesa cattolica, è di fatto un fenomeno ben più frequente altrove e che la Chiesa ne è toccata molto meno che tante altre istituzioni. La differenza sta in questo: la Chiesa se ne preoccupa e fa di tutto per rimediare; gli altri se ne infischiano e lasciano che le piccole vittime continuino a soffrire, contenti solo di fare un po’ di scandalo “contro”. Perché, alla fine, lo si capisce bene: l’importante è attaccare la Chiesa, non difendere le vittime. Ma ne traggo una conclusione: se dovessi applicare la categoria mentale – si fa per dire – della saggia onorevole, che applica ai preti un modo di ragionare razzista, dovrei concludere che tutti gli onorevoli sono idioti. Ma dato che io razzista non sono, mi limiterò a pensare che idiota è solo l’onorevole in questione. A vedere se qualcuno penserà a rimediare anche a questo.

I cannoni dei giacobini

“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Chi ha la mia età ricorda forse il ritornello di una canzoncina pacifista del gruppo, mi pare, dei Giganti. Ripensavo a quelle parole, guardando il fregio del Palazzo Apostolico, nella Piazza della Madonna. Alternati alla rappresentazione del trasporto angelico della Santa Casa, appaiono tanti cannoncini a bandoliera, come strana decorazione in un luogo che dovrebbe piuttosto parlare di pace e di conciliazione, e non di guerra e di bombardamenti.

Il mio dubbio ha avuto un chiarimento immediato: per questo, basta chiedere le cose a chi le sa! Chi ha disegnato ed eseguito la decorazione aveva posto lì delle chiavi, come appaiono nello stemma della Santa Sede e quindi della Basilica Lauretana. Quando, nel 1797, arrivarono i francesi ad occupare questa parte d’Italia, offesi nella loro fede giacobina da questa esibizione di segni religiosi, pensarono bene di mutilare le chiavi, e di trasformarle in un ben più virile simbolo di distruzione e di morte. Buon per loro! I francesi di Napoleone vennero, con l’idea di restare per sempre. Se ne andarono alla svelta, portando con sé un sacco di roba rubata e lasciando il segno del loro fanatismo, che oggi diremmo “talebano”. A Loreto, altre invasioni talebane non ce ne sono state. Altre spedizioni di ladri, sì. Alcuni erano del tipo “ladri di galline”; più di recente sono arrivati anche i “ladri di galli”. E ognuno ha lasciato il suo segno, triste e offensivo. In fondo, i cannoncini giacobini sono la cosa meno grave: una piccola curiosità che ci ricorda un detto inventato proprio dai francesi: “Le ridicule ne tue pas”- “Il ridicolo non uccide”.

Giacomo Casanova pellegrino a Loreto

Ho tra le mani un periodico che, per forza di cose, non conoscevo: “L’Aperitivo Illustrato – Rivista di Arte, Cultura e Società”. Nel numero di marzo, trovo un articolo dell’amico Alberto Berardi, intellettuale fanese, che, con il permesso dell’autore, vi riassumo.

Più o meno, conosciamo tutti il nome di Giacomo Casanova, avventuriero del 18° secolo, famoso soprattutto per la sua abilità nel creare relazioni fugaci e superficiali con donne. Di qui l’accusa talvolta rivolta a uomini poco fedeli, ai quali si attribuisce il soprannome di “Casanova!”

Nel 1748, il giovane Casanova era in viaggio da Venezia per recarsi in Calabria, per assumere l’incarico di segretario di un Vescovo. Sbarcato in Ancona, fu trattenuto per ventotto giorni in quarantena nel Lazzaretto di quella città. Una volta fuori, decise di recarsi in pellegrinaggio alla Santa Casa di Loreto. Ecco come lui stesso racconta l’impresa: “Arrivai in questa Città Santa stanco da non reggermi in piedi. Era la prima volta nella mia vita che facevo 15 miglia a piedi, bevendo solo acqua, perché il vino cotto mi dava i bruciori di stomaco. Nonostante la mia povertà non avevo l’apparenza di un pitocco. Il caldo era tremendo”. A questo punto, il giovane incontrò un anziano abate il quale, forse scambiandolo per un’altra persona, lo accompagnò in una casa, nella quale lo stanco viaggiatore fu ospitato con ogni attenzione e senza dover pagare nulla. Fu servito con un pediluvio, del vino e una cena deliziosa, e infine con un letto a baldacchino, che viene descritto con entusiasmo: “Un letto di cui non trovai l’uguale che in Francia. Era fatto per guarire dall’insonnia ma io non ne avevo bisogno”.

Il giorno seguente, dopo aver usufruito delle prestazioni di un garbato barbiere, Giacomo fu ricevuto da Monsignor Carafa, il quale lo affidò ad un abate. Poi Giacomo fu nel Santuario: “Mi comunicai nel luogo stesso dove la Santa Vergine dette alla luce il suo Creatore”. Visitò infine il Tesoro e quindi lasciò la città per recarsi a Macerata, soddisfatto di aver trascorso quei giorni spendendo solo “tre paoli (il nome delle monete di allora) per il parrucchiere”.

Il diario di Giacomo Casanova non dice altro sul suo passaggio a Loreto. Si direbbe che quello che lo ha impressionato di più fosse la cordiale accoglienza ricevuta e il poco denaro speso. È un buon esempio di come trattare i visitatori, che i loretani di oggi continuano a seguire. Non sembra invece che la visita alla Santa Casa (per la quale egli commette anche l’errore di considerarla il luogo della nascita di Gesù) abbia avuto degli effetti duraturi nella vita dell’avventuriero, che continuò ad essere disordinata e inquieta.

Ma forse, al momento della resa dei conti, Casanova si è ricordato di quell’esperienza e di quella comunione ricevuta. Maria certamente non ha dimenticato quella visita, che potrebbe aver guadagnato la grazia della conversione anche a quello strano devoto.

Ma che domande!

Non sempre i pellegrini che vengono a Loreto hanno un’idea chiara di quello che troveranno all’interno del Santuario. Per questo, ogni tanto, chi lavora nella Basilica si trova a rispondere a domande di curiosi, che sono, a poco dire, strane. Una delle più frequenti è questa: “Dov’è apparsa la Madonna?” Il che vuol dire che c’è chi pensa che Loreto sia un luogo in cui la Vergine Santa si è fatta presente, rivelandosi a qualcuno, come è accaduto a Lourdes o a Fatima. A Loreto, invece, si conservano le pareti della Santa Casa di Maria, che erano una volta a Nazaret. Con le parole di S. Pio da Pietrelcina, possiamo spiegare: “A Lourdes la Madonna è apparsa; a Loreto Maria passeggia nella sua casa”.

Altra domanda che segue la prima: “Che cosa ha detto la Madonna?” Ancora una volta, si immagina che qui Maria abbia lasciato qualche nuovo messaggio, come nei santuari già ricordati. Ma se vogliamo conoscere quello che ha detto, dobbiamo semplicemente aprire il vangelo di Luca, e leggere i versetti 26-38 del primo capitolo: lì sono contenute quelle parole con le quali la Vergine ha accolto la chiamata del Signore ed ha permesso il miracolo dell’Incarnazione del Figlio di Dio.

Vogliamo andare sul più strano ancora? Un pellegrino ha chiesto un giorno: “Dov’è la tomba della Santa?” Ci è voluto un po’ per capire la domanda, ma è ovvio che, per quel visitatore, il Santuario di Loreto doveva essere dedicato ad una Santa dal nome, a dir poco raro, di “Casa”!

Ma chiudiamo questa carrellata con la domanda, molto recente, di un turista – difficile pensare che fosse un pellegrino! – che, entrando proprio all’interno della Santa Casa, ha chiesto al volontario che faceva lì il suo servizio: “È qui che si prende l’ascensore per salire sulla cupola?”  Invece di fare delle ironie facili, ed anche divertenti, dobbiamo ringraziare per l’inaugurazione di un Ufficio Informazioni proprio sotto il loggiato del Palazzo Apostolico. Almeno lì si potranno chiarire tutti i dubbi immaginabili, per evitare di fare poi domande come questa.

 Ma chi era Gabriele?

Nella Sala degli Svizzeri del Museo – Antico Tesoro si può ammirare una esposizione temporanea che aiuta a conoscere l’arte di Ludovico Seitz, il grande pittore che affrescò la Cappella Tedesca nella Basilica della Santa Casa. Una mostra che vale la pena di visitare, per scoprire tanti aspetti meno noti di quel miracolo di arte e di riflessione teologica che è, appunto, la Cappella Tedesca.

Tra le cose esposte, ho notato un disegno preparatorio della scena dell’adorazione dei Magi, con Maria assisa in trono, il Bambino Gesù, e varie figure di personaggi che si inginocchiano, si inchinano o si avvicinano. Tra questi, un giovane elegante, sotto il quale è scritto a matita il nome: Gabriele. Viene da pensare che fosse il modello che il pittore aveva scelto, per la figura da realizzare. E in realtà, il dipinto finito ci presenta il giovane re, riccamente vestito, nell’atteggiamento di offrire incenso. A dire il vero, lo schizzo sembra più vivace dell’opera completa, ma si sa che questo capita spesso, con degli abbozzi svelti, che lasciano più spazio alla fantasia. Se vogliamo accettare i nomi che la tradizione ha tramandato, dovrebbe trattarsi di Melchiorre.

Ma nasce la curiosità di sapere chi fosse il ragazzo che il Seitz aveva scelto come modello: un giovane di Loreto incontrato per strada? O un pescatore di Porto Recanati visto durante una passeggiata al mare? O uno dei suoi lavoranti, chiamato a macinare i colori e a preparare le tinte per l’affresco? Ci piacerebbe saperlo, e magari trovare un’antica fotografia del soggetto originale. Accontentiamoci di pensare che questo bel ragazzo, di cui non sappiamo nulla, agli occhi dell’artista ha saputo ispirare l’immagine bella di un re. Perché i re, almeno nell’arte, devono essere sempre belli.

Amore o vandalismo?

“Robi + China per sempre”. Capita di vedere scritte del genere, e spontaneamente simpatizziamo con i due innamorati che ci hanno fatto sapere, aggiungendo anche la data, il loro desiderio di un amore eterno. Saremmo anche pronti a fare il tifo per loro, e a sperare che, davvero, quel loro sentimento possa durare per sempre. Vicino a loro altri due innamorati, Nunzio e Laura, hanno voluto fare sapere a tutti che erano presenti, con il loro amore e la loro speranza per il futuro. C’è anche chi la butta sul mistico e proclama: “Marco e Terry insieme con Dio”. Tutto questo sarebbe molto bello, se non ci fosse un “ma”. E il “ma” c’è, ed è molto pesante.

Si tratta del luogo dove queste brevi scritte, così essenziali nel loro significato, sono state lasciate. Il pennarello ha lasciato i suoi grossi segni su una parete della sagrestia affrescata da Melozzo da Forlì, ed ha quindi imbrattato una parte di un dipinto del ‘400. Il chiodo, o un qualsiasi altro oggetto appuntito, ha scavato nell’intonaco antico, rovinando qualcosa che non avrebbe mai dovuto essere rovinato. In questo modo, le frasi perdono il loro fascino e diventano oscene.

Questi gesti, così difficili da capire e impossibili da giustificare, nella loro grossolana mancanza di rispetto per quanto esiste di bello e di venerando, si chiamano “vandalismi”, in onore dei barbari che, a suo tempo, calarono in Italia e si distinsero per la loro crudeltà e la capacità di distruggere tutto, senza rispettare niente. I Vandali di oggi non hanno neppure la giustificazione dell’ignoranza che, a torto o a ragione, attribuiamo ai barbari dei tempi antichi: oggi giorno, tra quello che si legge e quello che si vede alla televisione e si ascolta alla radio, tutti sanno, o dovrebbero sapere, che le opere d’arte hanno un valore immenso e che devono essere rispettate; tutti conoscono, o dovrebbero conoscere, il detto che “i nomi degli sciocchi si trovano dappertutto”; tutti sanno, o dovrebbero sapere, che chi più tardi leggerà quelle parole, che imbrattano indecentemente qualcosa di bello, dirà a se stesso o a chiunque sia a portata di voce: “Guarda cos’hanno fatto questi idioti”.

Una parola allora, a Robi e China, a Nunzio e Laura, a Marco e Terry e agli altri che hanno fatto la stessa cosa: spero sinceramente che il vostro amore sia vero e sia per sempre. Ma, per favore, non lo offendete, proclamandolo malamente sulle pareti di una cappella, né a Loreto né altrove.

Il paliotto d’argento

Qualche giorno fa, mi è capitato di vedere le immagini della visita di Papa Giovanni XXIII a Loreto. Mi ha impressionato vedere la moltitudine di persone presenti e il loro entusiasmo, non ancora limitato dalle ragioni di sicurezza dei nostri tempi. Ho ascoltato con stupore la voce squillante del Papa, così giovanile, nonostante l’età – aveva allora 82 anni – e la malattia, già presente nel suo corpo.

Ma poi mi sono fermato a un’immagine, ripresa quando il Papa era in preghiera davanti all’altare dell’Annunziata, che allora non era ancora coperto dalla sede di marmo, come è ora. Ebbene, davanti all’altare era collocato il paliotto d’argento che è stato usato, lo scorso 4 ottobre, per abbellire l’altare sul sagrato della Basilica, su cui ha celebrato il Santo Padre Benedetto XVI. Mi chiedo se questa coincidenza, così opportuna, sia stata voluta o se sia capitata per caso.

Vorrei per questo ricordare un particolare, di cui avevo sentito parlare tanti anni fa: quel paliotto d’argento era stato modellato con metallo donato alla Madonna. I tanti cuori votivi e altri oggetti d’argento erano stati fusi insieme, per comporre quello splendido ornamento così appropriato alla dignità della liturgia del Santuario.

E allora, ecco una domanda. Certamente, dopo di allora, ci saranno stati altri doni votivi, fatti alla Vergine Santa. Non si potrebbe pensare di fare con essi qualcosa di bello e di utile per la liturgia? I doni sarebbero esaltati, nel poter contribuire a dare sempre maggiore decoro alla Basilica della Santa Casa e alle celebrazioni che si compiono in essa.

Curiosità nel Museo – Antico Tesoro della Santa Casa: San Giuseppe con sei dita?

Il Museo – Antico Tesoro della Santa Casa è ricco di tante opere belle, che vale la pena di vedere con calma e attenzione. C’è molto da conoscere e da imparare. E ci sono anche alcuni dettagli curiosi, che scopriremo insieme e che, una volta indicati, potrete andare a verificare di persona.

            Le tele di Lorenzo Lotto sono tra le cose più preziose conservate nel Museo. Il pittore, che ha trascorso a Loreto gli ultimi anni della sua vita, ne ha lasciate nove. Oggi ne guarderemo una in particolare. È intitolata: “Il riposo nella fuga d’Egitto”, e rappresenta la Santa Famiglia in un momento di sosta, durante il lungo viaggio verso l’esilio, quando, dietro il suggerimento dell’angelo, Giuseppe fuggì con Maria e Gesù, per evitare la volontà omicida di Erode.

            Maria è rappresentata seduta, mentre veglia il Bambino. Dietro di lei, anch’egli seduto e appoggiato al bastone è San Giuseppe, che tiene la mano destra su una pietra, coperta da un lembo del suo mantello giallo. Quello è il punto da guardare bene: la mano di San Giuseppe ha sei dita, invece delle solite cinque che abbiamo tutti. La sesta è un po’ abbozzata ma c’è, e appare tra l’anulare e il mignolo. Cosa è successo? Forse il grande pittore non sapeva come fare le mani? O aveva qualche informazione speciale su qualche strana deformità nel corpo di San Giuseppe? Niente di tutto questo. La risposta è un’altra, ed è un po’ imbarazzante, specialmente per i responsabili del guasto.

            Qualche tempo fa, la tela ha dovuto essere ripulita e restaurata. I tecnici incaricati del restauro si sono dedicati al loro lavoro con un po’ di pesantezza, ed hanno raschiato via anche quello che doveva restare. Capita spesso che un pittore, anche bravo, abbia dei ripensamenti, e corregga quindi quello che aveva fatto prima. Il Lotto, evidentemente, aveva dipinto la mano di San Giuseppe, ma non era rimasto soddisfatto del risultato. Ne aveva quindi ricoperto una parte e l’aveva rifatta. Il restauratore non si è reso conto del ripensamento dell’artista, ed ha portato via troppo colore, mettendo in vista anche il sesto dito, che Lorenzo Lotto aveva nascosto ma che ora è stato inopportunamente esposto di nuovo.

            Sono cose che capitano, anche se, a dire il vero, non dovrebbero capitare. Ma almeno ora abbiamo un interesse in più: cercare nel Museo il San Giuseppe con sei dita.

Curiosità nel Museo – Antico Tesoro della Santa Casa: L’altare con i piedi umani

            Visitando il Museo – Antico Tesoro, in un quadro di Lorenzo Lotto avevamo scoperto il particolare di San Giuseppe che, nella sua mano destra, sembra avere sei dita, invece delle solite cinque, Oggi, esplorando sempre la sezione del Museo dedicata al grande pittore veneziano, guarderemo con attenzione un altro quadro, che rappresenta la presentazione di Gesù Bambino al tempio. Si tratta dell’episodio della vita di Gesù, descritto nel Vangelo di Luca, nei versetti 22-38 del capitolo 2.

            Il Lotto ha ambientato la scena all’interno di una chiesa, che secondo alcuni dovrebbe essere la stessa basilica di Loreto, in quella che oggi è chiamata la Cappella spagnola. Sembra anche che l’artista si sia rappresentato nella figura di un vecchio, che si affaccia da una porticina laterale, sulla destra del quadro. Si direbbe quasi un saluto del vecchio pittore, di cui questa sarebbe l’ultima opera, rimasta incompiuta per la morte, sopraggiunta, sembra, nel luglio del 1556.

            Alcuni volti delle figure in primo piano, che circondano Maria che regge il Bambino, il gran sacerdote, il vecchio Simeone e la profetessa Anna, sono appena abbozzati, e forse anche per questo hanno una sorprendente efficacia nelle loro espressioni.

            Ma c’è un dettaglio che, tra tanti particolari tirati via alla svelta, sembra essere descritto con grande accuratezza: è la tavola al centro della scena, ricoperta da una tovaglia preziosa, bianca e rifinita in ogni dettaglio. Si direbbe che sia un altare, rappresentato però come se fosse una mensa eucaristica cristiana. L’altare ebraico, infatti, era di pietra e metallo, e non era ricoperto da nessuna tovaglia.

            Guardiamo poi in basso, e scopriamo qualcosa di sorprendente: la tavola è sorretta da quattro gambe, che si appoggiano su quattro piedi umani, anche questi dipinti con molta precisione e chiarezza. Perché questi piedi? Dato che si tratta di un altare, dicono alcuni, il pittore ci ricorda il simbolismo dell’altare cristiano, che è sempre visto come simbolo di Cristo. Questo è vero, ma ci si può chiedere come mai questo simbolismo sia stato applicato in una scena nella quale Gesù stesso è raffigurato, ma sulle braccia di sua madre. E poi, volendo alludere al corpo di Cristo, perché solo i piedi, e perché proprio i piedi?

            Potremmo allora pensare ad una specie di linguaggio cifrato, per trasmettere un messaggio, che però noi oggi non capiamo. Checché ne sia, i piedi sono là, e chi non crede che ci siano può andare liberamente a vederli. Quanto ad altre interpretazioni, ognuno può sentirsi libero di suggerirne qualcuna. Ma che peccato che Lorenzo Lotto non sia qui a spiegarci le ragioni per cui ha dipinto così.

Ancora a proposito di piedi

Il Maestro Enrico Manfrini è ben conosciuto a Loreto. Grazie alla sua amicizia con S.E. Mons. Pasquale Macchi, già segretario personale del Papa Paolo VI e quindi Arcivescovo Prelato di Loreto, il famoso scultore ha modellato diverse opere che sono presenti negli ambienti vicini al Santuario della Santa Casa. 

Il suo lavoro forse più visibile è la collezione di formelle di bronzo, con scene della vita di Maria, che decorano il corridoio di accesso alla Basilica, proprio di fronte ai nuovi pannelli illustrativi del Santuario. Non ci si stanca di ammirare la freschezza del modellato delle diverse figure e la vivacità della rappresentazione delle scene, che rivelano l’abilità dell’artista, capace di imprimere nella materia degli spunti di vera spiritualità.

Eppure, anche un artista così grande ci ha lasciato qualcosa di strano, che sembra uno sbaglio o che forse è una provocazione. Il Maestro Manfrini ha modellato una Via Crucis in bronzo per la cappella della Domus Sanctae Marthae in Vaticano, che è una specie di albergo o pensione riservata per gli ecclesiastici che lavorano negli uffici della Santa Sede. È questo il luogo dove, nel conclave del 2005, hanno alloggiato i Cardinali che hanno eletto Papa Benedetto XVI.

Ebbene, nella XI stazione della Via Crucis, “La crocifissione di Gesù”, è rappresentato il soldato che, con in mano un martello, conficca i chiodi nelle mani del Signore. Guardatelo bene: ha la gamba destra piegata e l’altro piede che spunta a sinistra sotto il busto. Ma anche questo è un piede destro, dato che l’alluce è ben visibile all’infuori del piede! Allora: il grande Manfrini per una volta era distratto? Potremmo ricordare il detto latino: “Quandoquidem dormitat bonus Homerus”, che vuol dire: “Qualche volta sonnecchia il buon Omero”, per indicare che anche i più grandi artisti possono talvolta avere delle calate di stile. Ma a me piace pensare che, in questo caso, l’anziano scultore abbia voluto lasciare una specie di sfida, per vedere se qualcuno, prima o poi, se ne sarebbe accorto. Noi abbiamo scoperto il segreto. Ci manca solo di capirne la ragione.

Dov’è finito il Natale?

Ecco una domanda per la quale vorrei tanto avere una risposta. A fianco della sagrestia della Basilica di Loreto, c’è la grande e bella sala del Pomarancio. Una volta si chiamava la sala del tesoro, prima che qualcuno pensasse opportuno di far sparire il tesoro. Ora, nei grandi armadi che decorano le pareti, ci sono poche cose di valore, poche cose di buon gusto e una grande quantità di cose mediocri, rese preziose soltanto dall’affetto con il quale sono state donate.

Il soffitto della sala è decorato con una serie di affreschi che narrano gli episodi fondamentali della vita di Maria, con profeti e sibille, ripetendo in qualche modo lo schema usato anche dagli scultori del rivestimento marmoreo della Santa Casa.

L’artista che ebbe in commissione l’importante lavoro si chiamava Cristoforo Roncalli, ma, dal suo paese natale, Pomarance, a una ventina di chilometri a sud di Volterra, fu soprannominato Pomarancio. Il lavoro iniziò nel 1605 e fu completato, con un paio d’anni di ritardo sui tempi previsti, nel 1610.

Nei riquadri della volta sono rappresentati: la nascita di Maria, la sua presentazione al tempio, lo sposalizio con San Giuseppe, l’annunciazione, la visita a Santa Elisabetta, la fuga in Egitto, il ritrovamento di Gesù nel tempio, la dormizione di Maria. Tre scene sono poste al centro del soffitto, e rappresentano l’assunzione dei Maria al cielo, l’incoronazione della Vergine a Regina degli angeli e dei santi, e infine la traslazione della Santa Casa per opera degli angeli.

            Ecco quindi la mia domanda: come è possibile che in un ciclo pittorico di questa importanza, interamente dedicato ai momenti fondamentali della vita di Maria, manchi proprio il Natale? Nel rivestimento marmoreo il Natale c’è, ed è anzi rappresentato due volte, la prima con l’adorazione dei pastori, e la seconda con l’adorazione dei magi. Nella cappella tedesca il Natale c’è, e i diversi momenti del mistero sono uniti insieme, in una composizione che stupisce per la sua completezza ed eleganza. E allora, come è possibile che nel ciclo del Pomarancio manchi proprio il momento fondamentale nella storia della salvezza?

            Non ho una risposta né, fino ad ora, l’ho trovata da altri. Lancio la domanda a chi ne sappia di più, perché di una cosa, almeno, sono sicuro: una cosa del genere non è capitata per caso, e allora vorrei anch’io saperne la ragione.

Lo Zoo sacro lauretano

            Ho davanti agli occhi un volume edito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, dal titolo: “Lo Zoo sacro Vaticano” di Sandro Barbagallo. È una illustrazione dei tanti animali, rappresentati all’interno della Basilica di San Pietro. E c’è veramente di tutto: cavalli e agnelli, cammelli e colombe, serpenti e aquile, cicogne e gufi, cani e lucertole, gatti e pavoni, api e tori, corvi e pesci. Aggiungeteci poi qualche animale mitico, come draghi, grifoni e unicorni, e potrete capire il perché del titolo, che definisce l’insieme del grande tempio un vero e proprio zoo.

            Guardando questo studio, mi è venuto in mente di fare una ricerca nella Basilica della Santa Casa. Non sarà grande come San Pietro, ma quanto ad animali non ha nulla da invidiare alla sorella maggiore: a cominciare dal rivestimento marmoreo, e continuando nelle varie cappelle delle absidi, si incontrano tanti animali da poter riempire un altro giardino zoologico.

Quello che è forse il più famoso, perché rappresentato nella scena più vista in assoluto da chiunque entri nel Santuario, è il gattino dell’Annunciazione, che Andrea Sansovino ha scolpito nel gesto, così spontaneo, di ritirarsi in un angolo all’apparire dell’angelo di fronte a Maria.

            Ma poi abbiamo vari asinelli, per lo più accompagnati da San Giuseppe, un buon numero di cavalli, cani di varie razze e, tra la facciata e la sala del Pomarancio, una grande quantità di galli e galletti, messi un po’ dappertutto per ricordare il nome del Cardinale Antonio Gallo, che fu Protettore della Santa Casa all’inizio del XVII secolo.

            Ci sarebbe di che comporre un’altra opera fotografica, che potrebbe intitolarsi, appunto: “Lo zoo sacro lauretano”. Forse sembrerebbe poco originale, seguendo le peste del volume vaticano. Ma qui potremmo rifarci con un dettaglio che nella Basilica di San Pietro non hanno di certo: una scimmietta che suona il tamburello! Non ci credete? Parola mia che c’è. Dove si trova? Meglio non dare indicazioni troppo precise: basterà compiere una ispezione accurata, per trovarla al posto giusto. Buona ricerca, o forse è meglio dire: buona caccia!

Scritte sui muri

Il più delle volte, le scritte che si leggono sui muri sono offensive al buon gusto e alla buona educazione. Viene da pensare a quanti soldi devono essere spesi per eliminare tanti interventi, che hanno il solo risultato di sporcare pareti ed esaltare la cafonaggine degli autori.

            Ma ci sono alcune eccezioni che vale la pena ricordare. A Fano, su una parete della palestra in via della Trave è apparsa una scritta in dialetto: «Allah è grande mo Gesù Crist i da de bel». Ora la scritta è coperta da un tabellone per l’affissione di manifesti pubblicitari. Vorrei sperare che il testo nascosto possa un giorno essere riportato a piena visibilità, e magari essere debitamente ripristinato, in modo che non scompaia.

            Molti anni fa, nel basso muretto di una villa in via della Concordia, è apparsa una grossa scritta, con caratteri neri e spessi: «Boia chi molla». La risposta non si è fatta attendere. Con lo stesso tipo di caratteri, la frase è stata completata con «Bavo chi asciuga». Così la truce affermazione fascistoide è stata risolta da uno sberleffo, più efficace di qualunque reazione polemica. Peccato però che questi due interventi siano scomparsi, sotto una o più mani di pittura. Ma ogni volta che passo lì vicino, mi chiedo se, un giorno, non sia possibile riportare alla luce anche questo splendido scambio di opinioni.