Atti del Simposio sulla Cultura Africana

Il Pontificio Consiglio per la Cultura e l’Università Cattolica dell’Africa Orientale hanno organizzato un Simposio Internazionale: “Il Vangelo, buona notizia per le culture africane “, che si è svolto a Nairobi, dal 16 al 18 febbraio 1998. Gli Atti del Simposio sono stati pubblicati nel 1999, e mi è stato chiesto di scrivere una prefazione, che ho firmato come “Giovanni Mwenda Tonucci”, unendo al mio nome di battesimo quello datomi dagli anziani della tribù Meru, nella cerimonia di installazione come “mzee – anziano”.

PREFAZIONE

Un documento misterioso, di cui si sa troppo poco per poter esprimere giudizi definitivi, ma che alcuni studiosi vorrebbero attribuire al II o III secolo dopo Cristo, potrebbe essere considerato come la prima riflessione cristiana sul tema della inculturazione. L’anonimo autore della “Lettera a Diogneto” descrive il modo in cui, in quel mondo greco-romano, ancora dominato in massima parte da religioni politeiste e spesso molto corrotte, la fede cristiana si incarnava e si manifestava.

Quello che appare chiaro è che la fede, e non altro, distingueva i cristiani dagli altri cittadini di quella società: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto”. Vale la pena di notare che, lungo i secoli, sono stati molte le creative menti umane che si son date da fare a inventare misteriosi linguaggi, speciali segni esterni di riconoscimento e magari anche diete particolari, in modo che, dentro la Chiesa cattolica e più ancora fuori di essa, alcuni gruppi potessero sentirsi identificati, distinti e quindi protetti.

L’anonimo scrittore continua: “Testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.  Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera.  Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto”. Come gli altri, quindi, ma diversi in quelle specifiche esigenze con cui la fede ha arricchito la loro vita.

Pensavo alla lettera a Diogneto, durante i giorni del Simposio Internazionale “Il Vangelo, buona notizia per le culture africane “, organizzato a Nairobi dal Pontificio Consiglio per la Cultura e dalla Catholic University of Eastern Africa, dal 16 al 18 Febbraio 1998. In che modo può il cristiano vivere come vero africano, facendo in modo che i due elementi della sua personalità – africanità e fede cristiana possano essere ambedue autentiche e visibili, senza entrare in conflitto, ed anzi integrandosi a vicenda. Mi ha impressionato da una parte l’entusiasmo con cui molti parlavano dell’urgenza di fare un serio sforzo per incarnare la fede cristiana nei modi di vita dell’Africa. Dall’altra, ho dovuto notare che alcuni, anche tra i Vescovi, erano piuttosto pessimisti, perché dicevano: “È ormai tardi. La nostra gente non vive più i valori tradizionali”.

Certo, se si guarda in giro, in molte delle grandi e disordinate concentrazioni urbane dell’Africa di oggi, e io penso particolarmente alle nostre città del Kenya, si ha l’impressione che il punto di riferimento per la maggioranza della popolazione, specie giovanile, non siano i valori ancestrali delle culture locali, ma piuttosto i modelli importati dall’Europa e, oggi ancora di più, dall’America del Nord. L’identità culturale viene annullata dalla massificazione globale offerta soprattutto dalla televisione, che vede in ciascuno dei suoi utenti un possibile cliente, educato a desiderare e usare tutto e solo quello che il mercato mondiale ovunque e comunque propone.

Forse è proprio questa constatazione che rende grave e urgente la necessità di un ricupero e di una valorizzazione dei molti elementi umanamente ricchi, che sono presenti nelle culture tradizionali africane. Essi sono un terreno fertile per ricevere e far crescere il seme del Vangelo, certamente molto più adatto di quanto non lo sia il vuoto culturale provocato dall’imitazione passiva di modelli estranei. Questi infatti sono in gran parte altrettanto lontani dai modi di vita proposti dalle tradizioni locali come lo sono dalle esigenze morali, sia personali che sociali, del cristianesimo.

Quando gli apostoli lasciarono l’ambiente ebraico, entrarono in contatto con il mondo ellenistico, e arrivarono quindi a Roma. In quelle circostanze, essi diedero alla loro fede, nata in una cultura semitica, una veste e un linguaggio greco e romano, in alcuni aspetti determinato non tanto da punti specifici di fede ma piuttosto dai modi di vivere certe esperienze propri di quel mondo, che essi stavano allora scoprendo. Ricordiamo soltanto alcuni esempi, di diversa importanza e significato: la festa di Natale, la cui creazione aveva lo scopo di sostituire una ricorrenza pagana; certi modi di celebrare la Pasqua, legati al momento stagionale primaverile, come lo si esperimenta in Europa; le origini della liturgia esequiale, con la fissazione di commemorazioni al settimo e trentesimo giorno, che certamente non sono di origine cristiana.

Quando la Chiesa si estese nel mondo orientale, essa assunse un aspetto corrispondente, con diverse connotazioni a seconda delle diverse culture nelle quali si incarnava. Se consideriamo, tra le altre, le solenni liturgie greca, armena, russa, siriaca, ucraina, serba, copta, etiope, ci può sorprendere la varietà dei riti e dei colori liturgici, e più ancora quella degli accenti teologici, ma dobbiamo riconoscere in esse l’unità nella medesima fede eucaristica.

Molti conoscono queste parole, rivolte a coloro che assumono la missione di evangelizzare: “Non compite nessun sforzo, non usate alcun mezzo di persuasione per indurre quei popoli a mutare i loro riti, le loro consuetudini e i loro costumi, a meno che non siano apertamente contrari alla religione e ai buoni costumi. Che cosa c’è infatti di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l’Italia o qualche altro paese d’Europa? Non è questo

che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge né lede i riti e le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli”. Non possiamo che stupirci, se pensiamo che queste espressioni non sono tratte da un documento del Concilio Vaticano II, né dal Magistero dei Papi di questi ultimi decenni, ma sono le istruzioni date nel 1659 ai primi missionari per l’Asia dalla Congregazione di Propaganda Fide.

Il Simposio di Nairobi ha suscitato molte domande ma non ha potuto dare una risposta a ciascuna di esse. Talvolta abbiamo ascoltate delle analisi molto chiare e lucide, che ci hanno lasciato con la domanda: “E allora, cosa si può fare?”  Credo che la maggioranza delle risposte debbano ancora essere studiate e proposte, nel cammino di ricerca, seria e coraggiosa, di ogni chiesa locale.

A questo proposito, ho un po’ paura di esprimere dei pareri. Non vorrei che quello che scrivo fosse visto come una ulteriore manifestazione di arroganza da parte di chi, da fuori, vuole dettare soluzioni a chi sta dentro, arroganza che in questo caso sarebbe peggiorata dalla mancanza di esperienza e di competenza specifica. Provo soltanto a chiedermi se alcune istituzioni fondamentali della società tradizionale africana – o per lo meno di quella parte dell’Africa che comincio a conoscere -, che sono state in pratica eliminate dalla struttura della presente società, non meritino invece di essere apprezzate e utilizzate all’interno della Chiesa, e non possano fornire strumenti utili per un rinnovato sforzo di evangelizzazione.

            Per fare solo qualche esempio, quale spazio potrebbe avere nella Chiesa il ruolo di riflessione e di educazione che tradizionalmente era assegnato agli anziani? Sappiamo bene che il nostro tempo privilegia l’efficienza tecnica piuttosto che la saggezza sorta dall’esperienza. Anche nella Chiesa, si invoca spesso un forte o addirittura aggressivo stile di governo.  Ma quali risultati ne nascono, ad esempio per i giovani, che perdono i loro normali punti di riferimento e non hanno come sostituirli?

Quale importanza potrebbe avere nella Chiesa il sistema dei “gradi di età” e dei “gruppi di età”, fondamentale in molte culture? Esso è capace ancora oggi di suscitare una forte solidarietà tra gruppi di persone che vivono insieme importanti esperienze esistenziali. Questo potrebbe essere di grande valore per coloro che sono chiamati a vivere, come comunità, la missione della testimonianza evangelica.

Cosa dice alla Chiesa la celebrazione dei riti tradizionali di iniziazione, che fanno di un ragazzo e di una ragazza persone adulte, richieste di svolgere ormai i loro specifici compiti nella società? I sacramenti dell’iniziazione cristiana, specialmente ma non esclusivamente la Confermazione, hanno delle similitudini impressionanti con questi riti, e tendono a trasformare nello stesso modo la presenza di un cristiano all’interno della Chiesa. Vale la pena lasciar cadere queste tradizioni, quando esse rappresentano una splendida base per quanto noi stessi vorremmo costruire? È possibile che il periodo talvolta speso come “moran”, che tradizionalmente metteva a disposizione della comunità un gruppo di giovani scelti e preparati, debba trasformarsi, nella migliore delle ipotesi solo in una reliquia folkloristica del passato, e nella peggiore in un imbarazzante fastidio? Non potrebbe invece essere interpretato in un nuovo, generoso servizio prestato dai giovani nella comunità, specie nella protezione dei più deboli e nell’assistenza dei poveri e bisognosi?

La liturgia, è facile capirlo, presenta molti spazi per una inculturazione seria e profonda, che vada al di là dei pochi adattamenti finora compiuti: i canti ritmati dai tamburi, qualche danza culturalmente neutra, qualche segno autoctono all’offertorio. Mi sembra che, fino ad ora, si sia fatto poco per studiare dall’interno delle culture locali le strutture delle nostre chiese e in particolare del presbiterio; o per capire se il linguaggio liturgico dei colori, formulato in termini europei, sia percepito come comprensibile in Africa; o per capire se i paramenti liturgici e le insegne presbiterali ed episcopali, ormai familiari nella tradizione latina, non abbiano bisogno di essere ridisegnati per rispettare il linguaggio dei simboli proprio delle diverse culture di questo continente.

            Una domanda finale, con una proposta che la segue. Nel Codice di Diritto Canonico, il can. 855 stabilisce quanto segue: “I genitori, i padrini e il parroco abbiano cura che non venga imposto un nome estraneo al senso cristiano”. L’interpretazione data da alcuni era che al battesimo si devono dare solo nomi “cristiani”, il che, in pratica, vuol dire quelli già presenti nel calendario. In proposito ci sono storie di equivoci gustosi o imbarazzanti. In qualche parte si potrebbe anche studiare la provenienza dei primi evangelizzatori, attraverso l’esame dei nomi che erano assegnati.  L’interpretazione è però sbagliata e persino contraria alla prassi costante della Chiesa. Quello che si chiede di evitare sono quei nomi che offendono i sentimenti religiosi, come avveniva nell’Italia massonica e anticlericale dell’inizio del secolo (che lo crediate o no, un mio lontano zio si chiamava Antidio, un professore d’arte vicino di casa era Atheno – e non è difficile capire che il primo nome voleva dire “Contro Dio” e che il secondo era stato aggiustato dall’originale “Ateo”). Questi però sono casi estremi, dettati da un cattivo gusto che è ormai fuori moda.  Non dimentichiamo però che i nomi che ora noi diciamo cristiani sono diventati tali attraverso la santità di chi li portava. Strettamente parlando, nessuno dei primi 18 successori di San Pietro aveva un nome cristiano; e neppure Ambrogio, Agostino, Anselmo, Basilio, Antonio, Bruno, Bernardo, Francesco, Carlo, Roberto – per non menzionare che alcuni – avevano nomi cristiani. Li hanno cristianizzati loro. Ed è per questo che noi li portiamo. I nomi usati nella tradizione africana hanno frequentemente significati molto belli, spesso consoni alla nostra fede, che è fatta anche di ammirazione della natura e di contemplazione degli eventi naturali e umani. Perché quindi non dovrebbero essere usati nel Battesimo, per indicare subito la identità africana dei cristiani di questo continente? Forse si tratta di poco, ma anche questo poco potrebbe essere una buona notizia per cominciare a dare segni chiari che la fede cristiana non è aliena all’Africa, a nessuno dei suoi valori, e “non respinge né lede i riti e le consuetudini – e qui io aggiungo “e i nomi”! – di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli”.

Dio voglia quindi che, in tempi non troppo lontani, nella litania dei santi africani, vicino a Kizito, Bakhita e Anwarita, possiamo invocare dei Kipng’eno, Subira, Kamau, Nyawera, Mwende, Chepchirchis, Naliaka, Atieno e persino dei Mwenda! Non c’è da stupirsene, se ricordiamo che ciascuno di quei nomi è già scritto sulle palme delle mani di Cristo, trafitte dai chiodi della crocifissione! (Cfr Ecclesia in Africa, n. 143).

Il cammino dell’inculturazione è aperto davanti alla Chiesa africana. Ci vorrà molto studio, molta pazienza, molta creatività. Si dovranno prevedere successi ed errori, approvazioni e richiami all’ordine. Non dovrebbe essere un problema. L’importante è che il fine sia chiaro davanti agli occhi: “L’effusione dello Spirito Santo faccia delle culture africane luoghi di comunione nella diversità, trasformando gli abitanti di questo grande continente in figli generosi della Chiesa” (Ecclesia in Africa, n. 144).

In questo cammino, certamente lungo e difficile ma insieme esaltante, il Simposio di Nairobi ha rappresentato una tappa. Gli atti qui presentati ne documentano l’importante contributo. L’efficacia sarà verificata negli anni a venire, nella vita quotidiana delle diverse chiese locali.

+ Giovanni Mwenda Tonucci
Nunzio Apostolico