È stato importante per me

Giancarlo Gaggia

            C’è una cosa che continuo a chiedermi, da quando ho saputo della morte di Giancarlo: gli ho mai detto quanto è stato importante per me? La risposta è “no”, e ora devo solo sperare che egli abbia già letto nel cuore di Dio quello che io, nella mia stupida timidezza, non sono mai stato capace di dirgli.

            L’avevo incontrato per la prima volta a un campeggio, a Chiaicis di Verzegnis, nell’agosto del 1954. Per me, era il secondo campeggio, dopo il primo a San Pietro di Cadore. Direttore era l’ormai mitico Giuliano Giuliani, con la sua eloquenza travolgente, che già preannunciava l’avvocato di grido, e le sue famose gambe. Perché famose? Beh, chi le ha viste una volta lo sa, e non c’è bisogno di spiegazioni. Poi c’era l’assistente, Don Genesio, che cantava “là nella valle” col tremolo e, la sera, “sotto questo cielo di stelle”, cercava di commuoverci col pensiero della mamma lontana. E poi, tra gli altri dirigenti, c’era lui, Giancarlo, che io non avevo mai visto prima, con un gran ciuffo di capelli e una canzone nuova, “Salve Colombo”, che ebbe successo e che Giuliano definì una canzone da discesa, perché andava bene con quel ritmo di marcia.

            Due anni dopo ritrovo Giancarlo a Pianello. Ero un aspirante ormai maturo e, questa volta, lui era il direttore. Mostrava già una capacità speciale nel parlare a noi ragazzi, per proporre alti ideali e impegnarci ai valori ardui del Vangelo. Diceva le cose con chiarezza, ma anche con partecipazione, “con il cuore in mano” e “come un fratello maggiore”. Devo riconoscere che, anche se, più tardi, avevamo provato a scherzarne con lui, il suo stile di parlare era efficace: funzionava, entrava dentro, faceva effetto. L’avevo ammirato molto, ed anch’io dovevo essergli andato bene, perché l’anno dopo mi volle come uno dei suoi collaboratori – il più giovane e di gran lunga il più inesperto – al campeggio di Chiaserna. Poi, un anno dopo l’altro, a Mazzin, a Campitello, ad Alba di Canazei. In ciascuno di quei campi, Giancarlo aveva imposto il suo stile di essere capo: credibile perché competente, autorevole senza essere autoritario (a questo ci pensavo io), attento alle persone e preoccupato per ciascuno. Sapeva essere deciso ma anche paziente, come un educatore vero, che riconosce a ciascuno un tempo e uno spazio di crescita, senza forzare mai e senza negare a nessuno le sue possibilità di errore e di ripresa. Ricordo, a questo proposito, diverse discussioni: “A quello, è meglio mandarlo via subito”, dicevo io, che ero per le esecuzioni sommarie. Giancarlo invece prendeva tempo, dava più attenzione e, alla fine, si vedeva che aveva ragione lui, perché proprio alcuni di quelli che io avevo condannato senza appello avevano dimostrato di essere addirittura tra i migliori.

            Quanti ricordi di quei campeggi: la bellezza dei luoghi, lo stare insieme, le avventure in montagna, le camminate a non finire, i grandi giochi, i momenti di silenzio, gli scherzi, le conversazioni la sera prima di dormire, la stanchezza per il tanto lavoro fatto… Tutto rimane come un punto di riferimento, senza il quale non saprei come capire la mia vita, la mia crescita in quegli anni e, ad un certo punto ben preciso, la decisione di diventare prete. Di tutto questo Giancarlo è stato insieme attore e testimone, ma sempre con discrezione, con misura, senza risparmiarmi delle solenni lavate di capo, quando le meritavo, incoraggiandomi a superare le mie difficoltà, le mie timidezze e le mie crisi di pessimismo cosmico, e diventando complice di non pochi scherzi, più o meno innocenti, architettati a danno di altri amici.

            Lo vidi seriamente arrabbiato quando, a Mazzin, tornai da quella che doveva essere una breve escursione esplorativa col mio gruppo, con un ragazzo con un braccio rotto, un altro con un ginocchio ferito e tutti quanti, me per primo, in stato di shock. Grazie alla mia imprudenza nell’affrontare un canalone, ci eravamo trovati in rischi molto gravi, e Giancarlo ne fu, ovviamente, sconvolto. L’anno dopo, andati insieme a Campitello per preparare la casa affittata per i campeggi, eravamo stati invitati a cena dalle ragazze di Pozza. Avevo allora dei baffetti diciassettenni, lasciati crescere con cura ma ancora del tutto invisibili. Per creare un effetto migliore, Giancarlo li annerì con la sua penna-pennello “Partner”, una specie di precursore dei pennarelli, e il risultato ci era sembrato notevole. Ma anche con quel ritocco, non ebbi successo. Non credo però che fosse quel fallimento a convincermi a farmi prete. Una delle cose che non ero mai stato capace di fare, e della quale ho sempre avuto un terrore sacrosanto, è stata quella di parlare in pubblico, mentre Giancarlo ne era maestro. Quando, ancora un ragazzino, dovetti prendermi la responsabilità degli aspiranti del Duomo, come delegato, andavo a casa di Giancarlo, e lui mi spiegava come dirigere un incontro – di diceva “adunanza” -, come parlare di questo e di quel tema. Addirittura mi faceva lui uno schema del discorsetto da fare, che seguivo fedelmente, perché allora mi sentivo sicuro e garantito dalla sua autorità.

            Guardando alla nostra vita, ognuno di noi può scoprire delle persone che svolgono, o hanno svolto, un ruolo efficace nella nostra crescita come uomini o donne. I genitori, prima di tutto e, almeno per me, al loro fianco e nel suo compito molto specifico di guida spirituale, Don Micci. Ci sono però anche delle figure intermedie, molto incisive, perché più vicine, più comprensibili, con le quali era più facile identificarsi. Potrei ricordarne un buon numero, tra i dirigenti dell’Azione Cattolica, che hanno contribuito a formarci, dandoci idee e inculcandoci la necessità di una coerenza di vita, insegnandoci l’amore per la Chiesa senza settarismi e senza che ci chiudessimo in una chiesuola esclusiva. I responsabili delle diverse associazioni giovanili parrocchiali, nelle loro attività continue; quelli che hanno animato la grande stagione dei campeggi degli anni ’50, momenti per noi insostituibili di crescita e di formazione; quelli che guidavano le “quattro giorni” di settembre per preparare i programmi dell’“anno sociale” che stava per iniziare. Tra di loro, Giancarlo è stato per me senza dubbio il più importante. Insieme con lui potrei ricordare altri, diversi tra loro, con diversi modi di fare e di essere, ma ugualmente vicini nell’esempio della loro vita e nello spirito di servizio, ed anche vicini dell’ammirazione nella quale li univo tutti.

            C’è un piccolo episodio che, fino ad oggi, è rimasto sepolto nel mio cuore, e di cui non ho mai parlato con nessuno. Nemmeno con Giancarlo, dopo di allora. Un giorno, non ricordo né il mese né l’anno, Giancarlo mi chiese che cosa pensassi dell’Anna Biscottini. Sapeva che l’avevo conosciuta prima di lui, quando era ancora una ragazzina. E allora qual’era la mia opinione? Sì, c’era qualcosa di bello che stava nascendo. Cosa ne pensavo? Non ricordo quello che gli dissi, e non credo che fosse importante allora, o che sia importante adesso. Dati i risultati, è facile dire che aveva visto bene e che, in fondo, anche il mio parere fosse azzeccato. Ma è stato il suo gesto a colpirmi: in una cosa così grande, ha voluto chiedere il mio parere, mi ha fatto capire che era interessato a sapere il mio giudizio e ci contava.

             Mi dispiace di dover riconoscere che non sono stato capace di ricambiarlo con la stessa sincerità: quando nacque in me il desiderio di seguire la via del sacerdozio, tenni il segreto per me, al nascosto di tutti, quasi fino al momento di partire per Roma. E mai, in tutti questi anni, nelle in verità poche occasioni nelle quali ci siamo rivisti, ho avuto l’onestà di dirgli quanto lui fosse stato importante per me. Probabilmente l’ha capito da solo, ma sarebbe stato corretto dirglielo. Non che i risultati fossero tali da poterlo inorgoglire: ma la sua dedizione, la sua pazienza, la sua capacità di scommettere anche sui perdenti, tutto questo è stato davvero qualcosa che per me ha significato molto.

            In Giancarlo ho sempre visto, e vedo ancora, una persona completa, ricca di umanità e dotata di una sapienza profonda. Già da ragazzo aveva una maturità precoce, al di là della sua età e della sua preparazione intellettuale. Credo che in lui, anche se certamente tanto è stato acquisito attraverso lo studio e l’esperienza attenta, molto maggiore è stata la sapienza dono dello Spirito di Dio, di cui egli è stato uno strumento docile, e per questo utile ed efficace.