Giovedì Santo – Messa Crismale

Loreto, 28 marzo 2013

Cari fratelli e sorelle, cari amici,

la liturgia di oggi è del tutto eccezionale, e si celebra solo una volta all’anno, nel Giovedì Santo. In essa, la Chiesa prepara gli oli che, nel corso dell’anno liturgico, saranno usati per amministrare i sacramenti: il Battesimo, con il quale si accolgono nuovi figli nella famiglia di Dio; la Cresima, per infondere la pienezza dello Spirito Santo in cristiani ormai adulti, coscienti della missione di testimoniare la loro fede; l’Unzione degli Infermi, per offrire il conforto della grazia di Dio a chi soffre per malattia; l’Ordine sacro, per dare alla comunità ministri posti al servizio della Parola del Signore.

            La celebrazione contiene anche il rinnovamento delle nostre promesse sacerdotali, che noi sacerdoti compiamo insieme, mentre abbiamo come testimoni del nostro gesto voi, fratelli e sorelle, che siete la ragione del nostro essere preti. Vi invito quindi a non sentirvi esclusi da quello che dirò, anche se mi rivolgerò direttamente a me stesso e ai miei confratelli sacerdoti, perché anche voi siete parte di questa riflessione, come punto di arrivo del nostro servizio. Potrete anzi usare quello che sto per dire, per prenderne lo spunto per tirarmi le orecchie, quando quello che faccio somiglia molto poco a quello che cerco di dire.

Cari fratelli sacerdoti,

questo, lo sappiamo bene, è il giorno della nostra festa, nel quale ricordiamo quelle parole di Gesù: “Fate questo in memoria di me”, in cui la Chiesa riconosce il mandato del Signore ai suoi ministri per continuare nella sua opera di salvezza. Questo è il nostro giorno, quello che ci invita a rinnovare l’amore che ha motivato le nostre scelte, e che siamo invitati a vivere costantemente, per una donazione piena e sincera all’ideale abbracciato, che non è un’arte, né un compito, né una professione, né una specialità, ma soltanto una persona: Gesù Cristo, nostro Signore.

Difatti la prima promessa che rinnoviamo è proprio quella di unirci intimamente al Signore Gesù, modello del nostro sacerdozio, rinunziando a noi stessi e confermando i sacri impegni che, spinti dall’amore di Cristo, abbiamo assunto liberamente verso la sua Chiesa. Credo che tutti sappiamo bene, per esperienza, cosa voglia dire essere innamorati. Ma spero che, per farlo, non dobbiamo andare ai ricordi lontani dell’adolescenza, quando è così facile innamorarsi, senza che ne valga la pena, per poi restare amareggiati per il tempo e l’energia spirituale che abbiamo sciupato. Parlo del nostro essere costantemente innamorati di Cristo, della sua Chiesa, della nostra gente. Parlo della gioia del donarsi a loro, come amici carissimi che non abbiamo scelto in base a simpatie soltanto umane, ma che ci sono stati dati dalla Chiesa, e che sono stati affidati al nostro servizio generoso e disinteressato. Innamorati quindi di loro, per sapere di essere innamorati di Dio. Parafrasando San Giovanni: “Come potremmo dire di amare Dio, che non vediamo, se non amiamo i nostri fratelli che vediamo bene e che abbiamo sempre con noi?”

Essere innamorati è bello, e ancora più bello è manifestare nei gesti il nostro innamoramento. Il che vuol dire non cercare la nostra felicità in compensi marginali. La donazione del celibato è uno strumento impagabile per la nostra donazione totale ai fratelli, e non possiamo cercare altrove delle piccole e banali consolazioni, che ci offrirebbero soltanto dei surrogati dell’amore vero. Accanto alla consacrazione verginale, viviamo gli impegni della povertà e dell’obbedienza, che siano abbracciati con un voto specifico e senza di esso. In ogni caso, si tratta di ideali da vivere con coerenza e in pienezza, senza cercare aggiustamenti al ribasso, che rivelerebbero soltanto che siamo frustrati e insoddisfatti, e che abbiamo quindi bisogno di trovare altrove qualche soddisfazione. Che si tratti di cose o di persone, la realtà cambia poco. Sarà sempre e comunque qualcosa o qualcuno che si frappone tra noi e la nostra missione, qualcosa o qualcuno che dimostra che la chiamata del Signore non ci basta, qualcosa o qualcuno che ci serve per integrare quello che ci sembra ormai insipido e insufficiente. Sarà qualcosa o qualcuno che ci dice che, in definitiva, ci siamo sbagliati e che non è vero che il Signore è il nostro tutto e che la nostra costanza nel ministero ha in realtà bisogno di puntelli, di toppe, di rammendi. Ma di stoffe rammendate, come di otri vecchi, il Signore ci ha detto da tempo di non avere bisogno.

La seconda promessa che rinnoveremo sarà quella di essere fedeli amministratori dei misteri di Dio e di adempiere il ministero della parola di salvezza. Con questo, mettiamo i nostri diversi impegni nella giusta prospettiva, e siamo richiamati al senso del nostro servizio. Per questo siamo preti, e non per altro. Il servizio dei nostri fratelli ci chiede di fare tante cose, ma le prime e le più urgenti sono queste: annunciare la parola e amministrare i sacramenti. Sappiamo tutti che, al giorno d’oggi, è tanto quello che ci tocca di fare e che tanto di più ci è chiesto di fare. Ma prima di ogni altra mansione, non dimentichiamo mai che quello che ci spetta e ci qualifica è il servizio alla parola di Dio, che noi dobbiamo studiare per conoscerla e quindi essere capaci di farla conoscere; che dobbiamo amare e gustare e quindi essere capaci di far amare e gustare; che dobbiamo ascoltare dentro di noi per cercare di esserne testimoni credibili, per poter chiedere ai nostri fedeli di fare altrettanto. La domanda che ci dobbiamo porre è: quanto tempo abbiamo dedicato ogni giorno – non scherzo: ho detto ogni giorno – all’ascolto e allo studio della parola di Dio? E se siamo completamente presi dalla ricchezza della parola, come è possibile che, in tante celebrazioni – ora parlo in generale, senza pensare a Loreto! –, il momento meno attraente sia proprio la spiegazione della parola, che talvolta i fedeli sentono come povera, noiosa, poco convinta e poco convincente, e comunque poco interessante?

L’amministrazione dei sacramenti è il punto di arrivo indispensabile del nostro servizio sacerdotale. Dopo aver fatto tanti sforzi e aver usato la nostra intelligenza, la nostra preparazione e la nostra forza di convinzione, arriva il momento in cui dobbiamo lasciar fare al Signore, e prestare la nostra intera natura umana perché lui ci usi come poveri strumenti, per compiere la sua opera. Mi piace sempre pensare che, dopo aver utilizzato tutte le nostre facoltà, al momento di compiere quello che è più importante, quello che qualifica il nostro lavoro, noi non facciamo altro che ripetere gesti e parole che non sono nostri, e che abbiamo imparato a memoria. Quando Dio agisce, tutto è semplice e facile e a noi tocca solo essere il tramite per il suo intervento: non sono io che battezzo, o che assolvo, o che consacro: è Cristo che agisce grazie allo strumento che io gli presto.

Queste azioni divine che noi siamo chiamati a compiere hanno bisogno del nostro tempo e della nostra attenzione. I nostri fedeli non devono essere costretti a cercarci: devono sapere già dove siamo e dove quindi ci possono trovare. I nostri fedeli non devono essere costretti a chiedere appuntamenti, come se le loro richieste interferissero con la nostra attività: devono sapere bene in quali ore saremo pronti per accoglierli, per ascoltarli, consigliarli, dare loro il perdono. Gli orari delle Messe e delle altre celebrazioni, gli orari della nostra presenza in chiesa per le confessioni, devono essere conosciuti e rispettati. Anche se nessuno ci chiede di timbrare il cartellino, sappiamo di avere un dovere da compiere e saremmo disonesti se non lo facessimo.

Ora torno a voi, cari amici che ci accompagnate in questa celebrazione. La Chiesa si rivolge anche a voi e vi chiede di pregare per noi: ne abbiamo bisogno e vogliamo poter contare sulla vostra vicinanza e sul vostro sostegno. Vogliamo anche che sappiate che, se ogni tanto è bene darci una svegliata e porci di fronte all’altezza della nostra missione, i vostri sacerdoti sono bravi e buoni, e soprattutto sono contenti di aver ricevuto la chiamata del Signore, per servire il suo popolo in questo tempo e in questo luogo.

Capita qualche volta che delle persone, pensando di farci dei complimenti, ci chiedano che cosa ci aspettiamo per il nostro futuro, quale posto vorremmo ottenere, quale gradino nella carriera ecclesiastica vorremmo salire. La mia risposta è questa, e io la suggerisco a tutti, con gli opportuni cambiamenti che appartengono a ciascuno di noi: se potessi scegliere, dopo essere stato per cinque anni Vescovo di Loreto, vorrei diventare il successore del Vescovo attuale, per cercare di compiere la stessa missione, con la stessa gente, con gli stessi sacerdoti. Solo vorrei farlo meglio.

E la grazia del Signore, anche per il sostegno della vostra preghiera, ci aiuti ad andare avanti con coerenza, con convinzione e con tanta, tanta gioia.

Amen.