Il Delegato apostolico Mons. Bruno B. Heim

Trasferito dal Camerun alla Delegazione Apostolica nel Regno Unito (non ancora Nunziatura, dato che la Gran Bretagna non aveva relazioni diplomatiche con la Santa Sede), giunsi a Londra il 13 febbraio 1974. Con mia sorpresa, trovai ad accogliermi all’aeroporto lo stesso Delegato Apostolico, Monsignor Bruno Bernard Heim, che non conoscevo e non avevo mai incontrato. Ripensandoci ora, mi rendo conto che è stato l’unico Capo Missione che è venuto ad incontrarmi all’aeroporto.

Mons. Heim come “albero di Natale”

            L’adattamento allo stile di vita in Inghilterra non è stato facile: venivo dall’Africa, in una situazione di missione, a contatto con tante forme di povertà e sotto la guida di un Nunzio che era animato da un forte spirito missionario. La formalità inglese si rifletteva anche nella vita della Delegazione: i contatti personali erano meno frequenti, il rispetto della vita privata era assoluto e, per me, questo ha significato, almeno inizialmente, un sentimento forte di solitudine.

            Mi ci è voluto del tempo per abituarmi a ritmi diversi di vita e di servizio, ma pian piano sono stato capace, non solo di capire ma anche di apprezzare la diversità nella quale vivevo, e alla quale mi sono adattato perfettamente.

            Mons. Heim era una persona gradevole, con una grande conoscenza delle lingue e una vasta esperienza nella vita diplomatica. Per nove anni era stato Delegato Apostolico nei Paesi Nordici, ed aveva imparato le cinque lingue lì in uso: danese, svedese, norvegese, finlandese e islandese. Quando ricevette alcuni visitatori da quei paesi, lo ascoltai parlare con loro nella loro lingua. Lo stesso faceva parlando in arabo con i visitatori provenienti dall’Egitto, missione nella quale era stato prima del trasferimento a Londra.

             I suoi interessi, all’infuori delle sue responsabilità di Chiesa, erano l’araldica, il giardinaggio e la cucina. Era un araldista appassionato e competente, ed aveva una mano felicissima per creare e disegnare stemmi, con uno stile molto personale. Aveva disegnato gli stemmi di Giovanni XXIII e di Paolo VI. In seguito, avrebbe preparato anche gli stemmi per Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, anche se di quest’ultimo non era particolarmente fiero.

            Il Delegato era molto attivo: visitava le diocesi e incontrava molta gente, alternando i suoi interessi ecclesiastici con quelli culturali. Per la Chiesa, perseguiva un suo progetto ben preciso: voleva che la Chiesa cattolica in Gran Bretagna perdesse un po’ del suo aspetto irlandese, per avere una caratteristica più chiaramente locale. Voleva quindi che i vescovi che venivano proposti alla Santa Sede avessero una formazione tipicamente inglese, più che, appunto, irlandese e romana. Di fatto, molti anni dopo, un cattolico inglese, al quale avevo detto in quali anni avevo servito nella Delegazione di Londra, mi disse di considerare quel periodo “il punto di svolta della Chiesa inglese”.

            Poiché durante la mattinata Mons. Heim era del tutto occupato con le udienze e con i contatti telefonici, preferivo non disturbarlo mai in quelle ore. Nel pomeriggio, sapevo che si sarebbe messo al piccolo tavolo da disegno per lavorare ai suoi stemmi: quello era il momento adatto per andare da lui e per chiedergli indicazioni circa il lavoro da fare e circa le scelte da operare.

            Dopo qualche mese di lavoro insieme, mi chiese di non sottoporgli più la brutta copia dei miei testi, per i diversi rapporti: voleva che gli presentassi direttamente il testo definitivo, perché si fidava di quello che scrivevo e si sentiva ugualmente libero di correggere quando fosse stato necessario.

In occasioni di particolare solennità, il Delegato amava indossare alcune delle decorazioni di cui era insignito. Una volta, scherzando, gli dissi che sembrava un albero di Natale. Accettò lo scherzo e, la volta seguente, mi chiamò per fare una fotografia “all’albero di Natale”.

            La nostra relazione di lavoro, ed anche di amicizia, fu ottima. Non nego che ci furono momenti difficili, ma questo accade necessariamente in tutte le relazioni umane. Dovetti esercitare un po’ di pazienza, ma anche lui fece lo stesso con me, e posso dire tranquillamente che, insieme, abbiamo fatto un bel lavoro, ognuno nelle proprie competenze.

            A suo tempo, mi aveva detto che, quando uno dei suoi collaboratori con cui si era trovato in buona consonanza diventava Nunzio, gli avrebbe regalato lo stemma. A me capitò di meglio: prima della mia partenza da Londra, mi disse che non dovevo partire senza avere già il mio stemma, che disegnò, ricordando le idee che ci eravamo scambiati durante un viaggio in macchina. Del mio stemma era particolarmente soddisfatto, e anche io ne sono sempre stato fiero.