Il trenta rubato

Frequentando la Pontificia Università Lateranense, a pochi passi dal Seminario, noi alunni del Romano avevamo la fama di essere quelli che erano guardati con maggiore benevolenza dei professori. E quindi quelli che, più facilmente degli altri, potevano aspirare ad ottenere voti alti.

Non nego che la nostra presenza nei giorni di esame, con tanto di veste paonazza e di soprana, richiamasse l’attenzione e ci mettesse in bella vista. Ma va anche detto che, data la serietà del nostro Seminario, tutti sapevano che, quando andavamo a sostenere una prova, eravamo preparati perché non avevamo perso tempo. O diciamo che, grazie alla disciplina che reggeva la nostra vita, non ci si permetteva di perdere tempo.

            Di voti belli e non del tutto meritati ne ho avuti tanti, ma devo riconoscere che, più che la divisa del Seminario, mi ha aiutato la faccia tosta e la capacità di recitazione, che non ha mai permesso a nessuno di capire quanto fossi spaventato al momento di entrare nell’aula dell’esame.

            Il più immeritato tra tutti i “trenta” che ho avuto è stato quello dell’esame di lingua ebraica, alla fine del primo anno di teologia. A mio parere, lo studio dell’ebraico è stato una immensa perdita di tempo: un paio d’ore alla settimana, per una lingua così complessa, non erano sufficienti neppure per cominciare a capirci qualcosa. E contemporaneamente avevamo materie fondamentali, come soteriologia, introduzione alla morale, introduzione biblica, ciascuna delle quali richiedeva molta attenzione e molto studio.

            Sta di fatto che, alla fine dell’anno accademico, ero capace di leggere decentemente solo un brano dei cinque – se ricordo bene – che ci erano stati assegnati: la prova di Abramo, a cui Dio chiese di sacrificare il figlio Isacco. Gli altri brani erano un paio di salmi e due pagine del profeta Isaia.

            Alla chiamata del campanello, che mi diceva che era giunta la mia ora, dissi ai compagni che aspettavano fuori: “Dite un’Avemaria, perché se non mi chiede la prova di Abramo, mi ritiro”.

            Il professor Castellino era assistito da Spadafora, con il quale avevo scambiato qualche parola proprio minuti prima. Sfogliando il libro, Castellino mi chiese se preferissi prosa o poesia. Feci un rapidissimo esame della situazione: il libro era aperto al centro – e cioè ai salmi – e lui stava sfogliando verso il fondo – e cioè verso i profeti. E allora dissi, con la più ipocrita tranquillità: “Per me è indifferente”. La sua reazione fu: “E allora sentiamo la prova di Abramo!”

            Lessi bene – la sapevo quasi a memoria – e arrivai persino a gesticolare, per sottolineare quello che leggevo. Mi vedo ancora con la mano a mezz’aria mentre leggevo di Abramo che aveva afferrato il coltello per sgozzare Isacco. Sta di fatto che, dopo qualche domandina in più, Spadafora intervenne e disse: “Basta”.

            Così mi trovai fuori dell’aula con il libretto con un meraviglioso “trenta”, incredulo che questo potesse essere avvenuto, cosciente della fondamentale ingiustizia del giudizio, ma convinto di non aver nessuna intenzione di discuterlo.

            E, nemmeno a dirlo, un paio di giorni dopo non ricordavo più nemmeno i caratteri ebraici dell’alfabeto.