La Cappella dell’addolorata a Oropoi

P. Bernard Runo era un missionario tedesco che, da anni, svolgeva il suo lavoro pastorale nella parrocchia di Oropoi, in diocesi di Lodwar. La popolazione era Turkana. Venne in Nunziatura per invitarmi a consacrare una chiesetta che aveva costruito in ricordo di una sanguinosa battaglia tra Turkana e Karamojon svoltasi lì alcuni anni prima. Il Padre aveva visto le donne – spose, madri, sorelle – che raccoglievano i corpi dei loro cari uccisi, e aveva deciso di erigere proprio in quel luogo un piccolo santuario, dedicato alla Madonna Addolorata.

Fatta sosta a Lodwar, il 15 settembre 1999, insieme con alcuni sacerdoti mi recai a Oropoi. Dato il grande calore, ero in pantaloni corti e canottiera. A poca distanza dalla parrocchia, indossai anche la veste bianca filettata, con fascia violacea, zucchetto e croce pettorale.

Come accadeva sempre, un gruppo di donne mi aspettava ad una certa distanza dal luogo dell’incontro. Scesi dall’auto e andai verso di loro. Vennero di corsa e le vidi vestite secondo il loro abbigliamento tradizionale: ampia gonna di pelle, petto scoperto, decorato con ocra mista a grasso, tante collane al collo e il ciuffetto di capelli intrecciati in cima alla testa. Pensavo che, secondo la loro tradizione, mi avrebbero benedetto, scuotendo il ciuffo davanti a me, ma invece mi afferrarono e mi alzarono sopra le loro teste, e cominciarono a correre. Ebbi appena il tempo di togliermi lo zucchetto, che altrimenti sarebbe caduto, e mi lasciai portare. Dopo un po’, per il peso del busto, le donne che mi portavano abbassarono le braccia, mentre le gambe, più leggere, restavano in alto. Per cui la veste bianca scivolò in basso e io mi vidi con le gambe nude, in una situazione estremamente ridicola. Uno dei preti che mi accompagnava intervenne per convincere le donne a farmi scendere a terra, ciò che fu fatto dopo un po’. La veste bianca era tutta macchiata di ocra, ed era ormai impresentabile. Potevo sembrare un “ecce homo”, ma non potevo fare altro che ridere della situazione grottesca nella quale mi trovavo.

La liturgia della consacrazione si svolse alla meno peggio: ero l’unico a sapere come dovessero svolgersi le cose, per cui, ogni tanto, fermavo il procedimento per dare qualche spiegazione ai sacerdoti concelebranti. Il tutto giunse comunque a conclusione, con soddisfazione generale.

Doveva ancora seguire un’ultima fase, per completare il giorno: l’“akiriket”, e cioè una cena rituale, a base di capra cotta alla brace. Scendendo dalla collina, la capra era pronta, con un anziano al suo fianco, che reggeva una lancia. Chiesi a P. Bernard di non lasciarmi uccidere la bestia, perché non l’avevo mai fatto e avrei potuto farla soffrire. Ci pensò lui: l’anziano gli indicò il punto in cui doveva colpire, il colpo fu preciso e la capra cadde morta, senza emettere nessun suono.

L’animale intero fu collocato sul fuoco e noi ci sedemmo attorno. Davanti a noi, avevamo una specie di decorazione a ferro di cavallo, fatta di rametti di arbusto con foglioline verdi. La carne da mangiare sarebbe stata appoggiata lì sopra. Dopo qualche minuto, quando già il pelo della capra era stato in parte bruciato, la carcassa fu tolta dal fuoco ed alcuni, più esperti, cominciarono a scuoiarla e poi a staccare l’uno o l’altro pezzo, per farlo arrostire sulla brace. Usavano i loro coltelli a bracciale e stavano attenti a non rompere alcun osso: così doveva essere, per una tradizione che, non si sa perché, ripeteva la disciplina del sacrificio pasquale del Popolo Eletto.

Quando furono estratte le viscere, il contenuto ne fu strizzato alla meglio e fu poi versato a terra davanti a me. Il missionario, al quale avevo manifestato sorpresa, mi spiegò che si trattava di un gesto che mi dava grande onore! Ma, onore o no, l’odore continuava ad essere quello che si sa.

A mano a mano che la cottura procedeva, mi era offerto un pezzetto di carne ben abbrustolita. Quando considerai che avevo mangiato abbastanza, ringraziavo per l’omaggio e passavo la carne alle mie spalle, dove erano pronti tanti ragazzini, che approfittavano volentieri di quanto mi era stato dato.

Mentre noi mangiavamo la capra, un secondo gruppo di parrocchiani, più grande, stava cenando con la carne di un bue, anch’esso ucciso poco prima. Alcuni di loro vennero da noi, portando una abbondante porzione della loro carne da condividere, e lo stesso fecero, andando da loro, alcuni dei nostri.