La colonia di Santa Cecilia

Nella parrocchia di Marotta, non lontano dalla piccola chiesa parrocchiale, si trova la Colonia di Santa Cecilia, una istituzione scolastica allora funzionante e retta dalle Suore Domenicane di San Sisto Vecchio. Oltre che come scuola per alunni di elementari e medie, l’edificio ospitava anche un numeroso internato, per ragazzi e ragazze, provenienti da Roma. Si trattava di bambini e adolescenti di famiglie disastrate, inviati lì dal Comune di Roma come forma di assistenza, per salvarli da situazioni socialmente pericolose.

            Dato che mi recavo con regolarità a Marotta, per aiutare il parroco don Mario, ho avuto molte occasioni di sostituirlo a Santa Cecilia, per la celebrazione della messa domenicale e anche per le confessioni, nel pomeriggio di sabato.

            La situazione all’interno dell’internato mi è apparsa, pian piano, in tutta la sua pericolosità. I ragazzi avevano in comune il fatto disagevole di provenire da famiglie molto particolari, con genitori in prigione o coinvolti in traffici illeciti, e con madri che sopravvivevano anche nel mondo della prostituzione. Spesso i genitori erano separati e in aperta ostilità tra di loro, in modo che, nelle rare occasioni di visite ai figli, l’uno parlava separatamente male dell’altra.

            La Colonia era fornita di spazi abbastanza grandi per permettere il gioco dei ragazzi, sia all’esterno sia all’interno, ma, specialmente durante il tempo invernale, la sensazione di reclusione degli alunni era inevitabile. Alcune delle suore, insegnanti ed educatrici, erano di grande qualità, con una preparazione adeguata alla difficile missione che dovevano affrontare, mentre altre erano semplicemente brave donne, senza una particolare capacità di rendersi conto delle situazioni estreme che si verificavano nell’ambiente e senza la delicatezza necessaria per trattare con persone molto difficili.

            Con il passare del tempo, riuscii a cogliere l’esistenza di forme di sudditanza a cui erano ridotti i ragazzi più giovani e deboli da quelli più anziani e prepotenti. Con alcuni riuscii a stabilire una qualche intesa, di cui mi avvalsi quando, tornato a Roma, cercai di riprendere contatto con loro. Ma da quella esperienza mi rimase una forte sensazione di impotenza, e la constatazione di quanto fossero gravi i danni creati in quelle giovani vite dalle condizioni negative nelle quali, senza loro colpa, erano nati ed erano stati costretti a crescere.