Michael Courtney, sacerdote irlandese membro del servizio diplomatico della Santa Sede, era di qualche anno più giovane di me. Non lo avevo conosciuto prima, ma nel 1987 venne a Belgrado, per sostituirmi come collaboratore del Nunzio Apostolico Monsignor Montalvo, quando io ero stato trasferito alla Nunziatura di Washington. Trascorremmo un paio di settimane insieme e, come accade tra colleghi, diventammo amici, anche se in seguito non avemmo altre occasioni di incontro.
Diversi anni dopo, però, quando ero Nunzio in Kenya, Michael fu nominato Capo Missione e inviato in Burundi. Per andare e tornare dell’Irlanda, doveva passare a Nairobi e vi si fermava o qualche ora o un paio di giorni, a seconda delle coincidenze aeree. Questa circostanza servì per rinsaldare i nostri contatti. Da Bujumbura, inoltre, Michael mi chiamava per telefono, per avere ogni tanto un aiuto per risolvere questioni, per le quali non aveva ancora molta esperienza.
Alla fine del 2003, ero stato invitato a recarmi in diocesi di Kakamega, nella regione occidentale del Kenya, per consacrare una nuova chiesa, dedicata alla Santa Famiglia, nella domenica della solennità corrispondente. La sera precedente, il Vescovo Sulumeti aveva organizzato un incontro di tutti gli agenti pastorali della diocesi, per sottolineare la mia presenza e festeggiare il Santo Padre. Ogni anno, celebravano l’occasione il 6 gennaio, ma questa volta, essendoci il Nunzio in diocesi, l’anticiparono alla sera del 29 dicembre. Per questa ragione, dopo cena, lasciammo la residenza del Vescovo per recarci al centro pastorale, a qualche chilometro di distanza.
La mattina dopo, ci recammo a Lubao per consacrare la chiesa. Era stato invitato anche il Vescovo della confinante diocesi di Bungoma. Al suo arrivo, mi disse: “Condoglianze per la morte del tuo collega”. Alla mia richiesta di spiegazioni, mi disse che il Nunzio in Burundi era stato ucciso in un’imboscata. Per qualche istante dovetti fare mente locale, per capire di chi mi stesse parlando. Salvatore? No, lui è in Rwanda. O Christophe? No, è in Uganda, … Poi concentrai la mia attenzione e pensai a Michael. Fu un colpo duro e, durante la Messa, pensai spesso a lui.
All’omelia, proprio alla conclusione, volli fare un’allusione all’accaduto. La voce mi venne meno, non riuscii a prendere fiato ed ebbi alcuni momenti in cui mi sembrava che avrei potuto cominciare a piangere. I due vescovi si stavano per alzare, per venire ad aiutarmi. Ma ritrovai la forza e dissi qualcosa sul tragico evento. Ci fu molta commozione, e anche i due presuli unirono le loro voci per condannare l’assassinio.
La sera tornai a Nairobi, e fui informato di quello che nel frattempo era accaduto. Subito dopo l’attentato, quando Michael era ancora vivo, dalla Segreteria di Stato avevano chiamato in Nunziatura per provvedere al ricovero del ferito in un ospedale del Kenya. Mezz’ora dopo, quando Michael era già morto, chiamarono ancora per chiedere che io andassi immediatamente a Bujumbura, per prendere in mano la situazione. Le suore di casa non riuscirono a parlare con me, perché fecero il numero di telefono della residenza del Vescovo di Kakamega, dove non c’era nessuno, dato che eravamo tutti al centro pastorale. Da Roma, decisero quindi di mandare il Nunzio in Uganda, Christophe Pierre.
La mattina dopo, lunedì, tornato a Nairobi, chiamai in Segreteria di Stato per spiegare le ragioni della mia assenza e dell’impossibilità di entrare in contatto con me. Il Sostituto, mi si disse, era occupato. Attesi per una chiamata di ritorno, che non ci fu. Chiamai ancora, quel giorno e altri giorni dopo. Non mi fu mai possibile parlare con qualcuno. Evidentemente erano rimasti seccati per la mia assenza da Nairobi, qualunque ne fosse la ragione.
Forse, prima di spostarmi dalla Nunziatura, avrei dovuto chiedere ai superiori se, per il fine settimana, si prevedesse l’uccisione di qualcuno dei miei confratelli nunzi.