Con un profilo che i suoi confratelli definivano “da imperatore Romano”, Monsignor Giovanni Decimo Pellegrini, dell’ordine dei Frati Minori, era una persona impressionante. Grande missionario, era Vicario Apostolico di Camiri, che allora era ancora chiamato Vicariato di Cuevo. Ho sempre ammirato la sua onestà e la sua preparazione. Seguiva con molta attenzione gli eventi della Chiesa e, tra i Vescovi, era quello che conosceva più di tutti i documenti della Santa Sede. Data la conformazione del Vicariato, visitando le parrocchie, poteva rientrare a casa sua ogni sera, e aveva tempo per leggere la documentazione che riceveva. Riusciva a leggere anche “l’Osservatore Romano”, dimostrando grande coraggio e grande senso di fedeltà alla Chiesa.
All’avvicinarsi del compimento dei 75 anni, il 6 gennaio 1993, volle anticipare la presentazione delle sue dimissioni, perché desiderava che, già per quella data, fosse pronto il suo successore. Nella lettera che mi scrisse per questo a metà agosto 1992, mi diceva anche che stava andando a Santa Cruz, per una visita medica, dato che non si sentiva bene.
Dopo due settimane, altra lettera: i medici gli avevano diagnosticato un cancro al fegato, indicando che avrebbe potuto vivere ancora due mesi: “Torno a Camiri, per morire con la mia gente”.
A sua richiesta, andai a Camiri all’inizio di ottobre, per sostituirlo nelle feste di San Francesco, patrono del Vicariato, e nell’amministrazione della cresima ai ragazzi di quell’anno. Era ricoverato in ospedale, nel settore riservato alla comunità delle suore. Poté anche alzarsi e essere presente all’inaugurazione di un ampliamento dello stesso ospedale, ma era molto smagrito e debole. Si manteneva sereno, pronto a fare la volontà di Dio. Mi fermai a parlare con lui ogni giorno, e potei solo ammirare la sua forza d’animo.
Il 31 ottobre, come previsto dai medici, morì. Tornai a Camiri per il funerale, approfittando dell’aereo di Monsignor Stetter, allora Vescovo Ausiliare del Vicariato Apostolico di Chiquitos, che mi portò là da Santa Cruz. Per la difficoltà delle comunicazioni, non tutti i vescovi riuscirono ad essere presenti. Il commento ripetuto dai fedeli era: “Ci ha insegnato a vivere; ora ci ha insegnato a morire”.
Chiesi alle suore che l’avevano assistito come fossero stati i suoi ultimi giorni. Non aveva dolori, beveva qualche tazza di infuso e prendeva ogni tanto un’Aspirina, ma neppure una volta al giorno. Mentre seguiva la preghiera delle suore che erano nella sua camera, aprì gli occhi e disse, in un sospiro: “Gesù mio, misericordia”. E spirò.