La virtù della Fortezza

Durante lo svolgimento del “Festival dei due mondi” a Spoleto, alcuni vescovi sono invitati a tenere ciascuno una “Predica” su un tema legato alla fede cristiana. Nel 2018 sono stati presentate le sette virtù cristiane.

Spoleto, 6 luglio 2018

Prima di accettare l’invito di Monsignor Boccardo, per questa conferenza, non mi ero mai occupato molto della virtù della fortezza. Intendiamoci: voglio dire che non avevo dedicato ad essa la mia attenzione, come oggetto di insegnamento. Quanto al viverla, come atteggiamento di vita, spero di aver fatto qualche sforzo in questa direzione. Ma ora che mi trovo nella necessità di presentare qualche riflessione proprio su questo tema, ho dovuto rendermi conto delle carenze nella mia preparazione.

Ho quindi cominciato dalle basi linguistiche, e ho sfogliato il dizionario della lingua italiana. Alla voce “fortezza” trovo due definizioni diverse, o forse molto uguali. La prima si riferisce a un tipo di costruzione: “Opera di fortificazione costituita essenzialmente da una cinta di mura di notevole spessore e di opere addizionali aderenti o avanzate (torri, caponiere, rivellini)”. La seconda è invece per la virtù di cui dobbiamo parlare: “Accentuata capacità di azione, reazione, resistenza (quasi esclusivamente spirituale); una delle quattro virtù cardinali”. Mi sembra chiaro che, pur in riferimento a realtà diverse, la parola “fortezza” indica un atteggiamento di difesa e di reazione, che potremmo leggere in termini militari, sia reali sia allegorici.

Un secondo passo che ho fatto, mi ha portato a considerare l’iconografia delle virtù cardinali, molto abbondante in ogni epoca. L’interpretazione visiva delle altre tre virtù – prudenza, giustizia e temperanza – varia molto, con una buona quantità di specchi, bilance, ampolle e animali. Nel caso della fortezza, invece, abbiamo sempre una donna, più o meno robusta, protetta da un’armatura, con tanto di elmo, scudo e spada o lancia. Ho presente la Fortezza che Giotto ha affrescato nella Cappella degli Scrovegni a Padova: la donna è imponente e il suo sguardo, rivolto verso sinistra, è fiero e determinato, quasi minaccioso; è protetta da uno scudo di grande dimensione, della sua stessa altezza, con il petto coperto da una corazza, con sul capo e sulle spalle una pelle di leone e nella mano destra una mazza ferrata, pronta a colpire. Lo scudo è ornato dall’immagine di un leone rampante, dato che il leone, qui presente due volte, è l’animale che accompagna la rappresentazione di questa virtù.

Quando si parla di fortezza, si fa menzione anche di alcune figure bibliche che sono identificate con essa. Sono soprattutto figure femminili, ricordate per il loro coraggio e la loro capacità di sovvertire i ruoli, che la parte maschile nelle rispettive storie aveva disegnato. Ne ricordo due, che spero vi siano familiari: si tratta di brani biblici, legati alla tradizione giudeo – cristiana, ma sono anche pagine di alta letteratura, patrimonio quindi della cultura mondiale.

La prima donna è Giaele, quella di cui Alessandro Manzoni ha scritto: “quel che in pugno alla maschia Giaele pose il maglio ed il colpo guidò”. La storia, narrata nel capitolo 4° del libro dei Giudici, è questa: l’esercito cananeo, guidato dal generale Sisara, attacca i Giudei che sono installati alle pendici del monte Tabor. Il comandante ebreo, Barack, sconfigge i nemici e Sisara, lasciato il suo carro, fugge a piedi e si rifugia nell’accampamento di Giaele, la cui famiglia è in pace con il re di Canaan. Giaele lo invita ad entrare nella tenda e Sisara le chiede da bere e dà precise istruzioni per come la donna avrebbe dovuto comportarsi, se qualcuno fosse passato lì e avesse chiesto notizie su di lui.  Giaele gli offre latte fresco da bere, ma mentre Sisara, stremato per le fatiche della battaglia, dorme profondamente, gli pianta nella tempia un picchetto della tenda. Viola gravemente le legge universale del rispetto dell’ospite ma, almeno dal punto di vista del popolo ebraico, compie un gesto di liberazione, ovviamente apprezzato e celebrato.

La seconda donna forte è Giuditta, alla quale è dedicato un intero libro della Sacra Scrittura. Giuditta, donna bellissima e virtuosa, mette a repentaglio la sua onorabilità e la sua vita, per salvare la città di Betulia dall’assedio del generale assiro Oloferne. Quello che rende degna di ricordo l’impresa di Giuditta è la sua capacità di utilizzare la bellezza per distruggere il nemico, il quale era invece convinto di essere riuscito a sedurre la vedova ebrea e di poterla fare sua concubina. Dopo aver tagliato la testa a Oloferne, ed aver quindi precipitato nel disordine l’esercito assiro, Giuditta stessa celebra in un canto la sua impresa. Rievocando le varie fasi della storia, ella menziona il modo in cui ha ammaliato il rozzo generale e, tra gli elementi di seduzione, sottolinea i sandali:

13,7Ella depose la veste di vedova

per sollievo degli afflitti in Israele,

si unse il volto con aromi,

8cinse i suoi capelli con un diadema

e indossò una veste di lino per sedurlo.

9I suoi sandali rapirono i suoi occhi,

la sua bellezza avvinse il suo cuore

e la scimitarra gli troncò il collo.

Vale la pena di notare che ambedue queste donne, sia pure in maniera diversa, hanno utilizzato la propria femminilità, che la controparte maschile considerava segno di debolezza e di ovvia sottomissione, per diventare invece colei che domina e vince.

In questo contesto, sarebbe interessante studiare l’aspetto della fortezza in Maria, la Madre di Gesù, considerando specialmente il testo del suo canto, il Magnificat, e i due episodi ricordati nel Vangelo secondo Giovanni: le nozze di Cana e la presenza ai piedi della croce.

Con queste premesse, che ci introducono già a capire qualcosa dell’atteggiamento spirituale che ci è proposto da questa virtù, sono ora pronto a sfogliare le pagine del Catechismo della Chiesa Cattolica, in quel solo articolo che parla della fortezza. Lo troviamo nella Parte Terza, su “La vita in Cristo”, nella prima sezione, su “La dignità della persona umana”, nell’Art. 7, su “Le virtù”, sezione dedicata a “Le virtù umane”, n. 1808.

La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. “Mia forza e mio canto è il Signore” ( Sal 118,14). “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” ( Gv 16,33).

Si capisce subito che la virtù della fortezza, anche se illuminata e resa più evidente in un contesto di fede cristiana, appartiene ad ogni uomo e donna, qualunque ne sia la condizione spirituale e la provenienza culturale o etnica. La fermezza e la costanza nella ricerca del bene sono atteggiamenti che vorremmo vedere incarnati in ogni persona che vive in questo nostro mondo e in questa nostra società, specialmente in coloro che sono investiti da mansioni e responsabilità pubbliche, che comportano sempre una dedizione piena al bene comune.

Quando il testo ci parla di “resistere alle tentazioni e superare gli ostacoli nella vita morale”, siamo aiutati a capire il perché della pertinenza della definizione di fortezza come opera di fortificazione, e perché l’iconografia della virtù insista sull’atteggiamento militare della figura allegorica rappresentata. Si tratta, infatti, di una lotta, forse di una guerra, che ci accompagna per tutto il tempo della nostra vita. Per ognuno di noi, la tentazione di vivere la nostra vita al ribasso è sempre presente. Gli ideali di onestà, fedeltà, correttezza professionale, lealtà, rispetto della norme per la vita sociale, sono continuamente messi a rischio, dalle possibilità che ci sono offerte e che sono, per così dire, pane quotidiano nella società in cui viviamo.

Se volessimo presentare una esemplificazione di queste situazioni, potremmo intrattenerci molto a lungo, ma il rischio sarebbe quello di cadere in una casuistica dettagliata, con un pericolo di fondo: contemplare i difetti che vedremmo incarnati in tante altre persone, e dimenticare le tentazioni nelle quali noi stessi cadiamo, sentendoci quindi garantiti come persone oneste e sostanzialmente rispettabili.

Mi permetto soltanto di darvi un esempio, che mi sembra significativo e che ho ascoltato proprio qualche giorno fa. Si riferisce ad una persona che apparteneva alla generazione dei nostri nonni e chi me ne ha parlato è un suo nipote. Aveva un piccolo esercizio commerciale e soffriva nel vedere che i suoi concorrenti adattavano i prezzi, in maniera che a lui sembrava non giustificata. A chi insisteva con lui perché, per sopravvivere, seguisse la corrente e si adeguasse allo stile degli altri, rispose: “Proprio adesso, alla fine della mia vita, volete che cominci a vivere come la porcacchia?” Per chi non ne fosse a conoscenza, la porcacchia, o portulaca, è una pianta che cresce sui muri, e striscia, come un rampicante. Ecco un’immagine efficace per indicare che ci sono persone che tengono alla loro dignità, prima e al di là dei rendiconti immediati. Non deve poi stupirci se questo stesso uomo, capace di difendere la sua onestà anche con proprio svantaggio, durante il tempo della occupazione nazista della sua città, abbia salvato tante vite di perseguitati Ebrei.

Il testo del Catechismo, parla di una fortezza che “rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni”. Non mancano, in questo senso, figure esemplari di chi ha vissuto questa virtù umana con grave rischio per la propria incolumità, senza lasciarsi intimorire neppure dalla possibilità di mettere in pericolo non solo la vita propria ma anche quella dei propri cari. È un modo di agire tipico dei prepotenti, a qualsiasi livello della società essi si trovino, quello di colpire persone innocenti per ottenere il silenzio complice di chi voleva alzare la testa contro la corruzione. Vi assicuro che è una esperienza terribile il rendersi conto di aver provocato violenza e maltrattamenti contro persone a voi vicine, solo perché si è fatto coscienziosamente il proprio dovere. Ho il diritto di far soffrire altri per quello che faccio io? È una domanda che fa tremare.

Quanti esempi potremmo ricordare, in questo nostro Paese, di persone che mettono a rischio costante la propria vita nella lotta contro la criminalità organizzata, che si chiami mafia, o camorra, o sacra corona unita, o qualsiasi altro nome con cui si vogliono definire queste congreghe di delinquenti. Quanti giudici e magistrati, carabinieri e membri della polizia, amministratori locali e uomini comunque coinvolti nella vita politica e sindacale, che hanno pagato con la vita la loro correttezza civile. E quanti stanno rischiando anche ora. La virtù umana della fortezza è vissuta ad ogni livello della società ed è la realtà concreta che ci fa sperare che, prima o poi, proprio grazie ad essa, l’onestà riuscirà a sconfiggere la delinquenza.

Se si dice che la virtù della fortezza rende “capaci di vincere la paura anche della morte”, questo significa che la possibilità del martirio è presa in considerazione da chiunque voglia vivere la propria vita in una dimensione di coerenza con gli ideali che lo ispirano. Difatti, la frase seguente del Catechismo della Chiesa Cattolica considera esplicitamente questa possibilità: la virtù della Fortezza “dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa”. La giusta causa a cui si fa riferimento non è necessariamente determinata da una fede religiosa, ma di fatto è di per sé legata a quei principi di bene che sono caratteristici della totalità delle fedi professate dall’umanità. Anche chi pensa di non avere una visione religiosa della vita ha certamente rispetto per i valori di onestà e di solidarietà umana, che giustificano la dedizione completa al bene proprio e degli altri.

(Nella religione islamica i termini “martirio” e “martire” hanno una diversa connotazione, ma questo aspetto esula dalla nostra riflessione odierna).

Vorrei fare riferimento a qualche episodio di “sacrificio della propria vita”, per illustrare il senso del martirio nelle sue diverse manifestazioni.

Ricordiamo che, ai tempi dell’Impero Romano, i cristiani erano condannati a morte per il loro rifiuto di bruciare incenso alle immagini degli dèi o dell’imperatore. Potrebbe sembrare che, in quel caso, si trattasse di un’azione banale, che poteva essere compiuta senza troppi scrupoli, dato che si sapeva, e si sa, che una statua, a chiunque sia dedicata, non significa nulla. Il gesto però aveva un significato di abiura dalla propria fede, e pertanto coinvolgeva l’intera struttura di fede di una persona. Non diversamente possiamo considerare il commovente episodio del vecchio Eleazaro, al capitolo 6 del 2° Libro dei Maccabei. La richiesta era lì quella di mangiare carne di maiale, proibita dalla legge di Mosè. Come soluzione alternativa, si offriva di servirgli di nascosto carni lecite, in modo che la sua purità legale restasse intatta. Ma questo non toglieva lo scandalo di far capire a tutti che il vecchio Ebreo aveva rinunciato alla fedeltà alla legge, per salvare la vita. Di qui la scelta, invece, di morire.

Anche oggi, e forse più spesso che mai, ci si chiede di bruciare incenso davanti ai feticci che regnano in questo nostro mondo, e che si ammantano del prestigio di essere politicamente corretti.

Non di rado, la scelta del martirio è causata anche dalla volontà di preservare la propria dignità umana. Così è stato per una schiera innumerevole di donne che hanno preferito morire, preservando la loro verginità, piuttosto che accettare di prostituirsi al maschio che voleva dominarle.

C’è qualcosa di simile nella storia, impressionante e bellissima, dei 22 martiri dell’Uganda, negli anni ’80 del 19° secolo. Il re Mwanga II avrebbe voluto mantenere un possesso completo di ciascuno dei suoi giovani paggi, coinvolgendoli anche in pratiche omosessuali. Nel rifiuto dei ragazzi, che li portò ad essere uccisi con incredibile crudeltà, possiamo vedere insieme la volontà di difendere la propria dignità umana e la fedeltà al battesimo che avevano ricevuto.

Talvolta, la persecuzione che causa il martirio dei cristiani ha motivazioni non esclusivamente legate alla fede religiosa. Possono esserci ragioni di interessi politici o di vantaggi economici, oppure possono essere causate dalla volontà di difendere strutture ingiuste, contro chi le denuncia. Non sempre la Chiesa può dichiarare la presenza di un vero e proprio martirio per la fede. Ciò non toglie l’esemplarità del gesto di chi offre la propria vita per affermare le proprie convinzioni di libertà e giustizia.

Poco tempo fa abbiamo ricevuto un altro esempio di fortezza da parte di giovani africani: i 147 studenti universitari di Garissa, in Kenya, uccisi per essersi dichiarati cristiani. Bastava dire un “no”, per avere salva la vita. Qualunque fosse la loro fedeltà agli impegni cristiani, il loro gesto finale li rende testimoni di Cristo al più alto livello di amore: “Nessuno ha un amore più grande: dare la sua vita” (Gv 15,13).

Ricordo qui un religioso, sacerdote francescano conventuale, Fra Placido Cortese. Vivendo nella comunità del Santuario di S. Antonio a Padova, durante la seconda Guerra Mondiale egli faceva parte di una rete di collaboratori, che aveva il suo punto centrale nell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Lo scopo era quello di far uscire dall’Italia, perché si rifugiassero in Svizzera, tutti coloro che erano in pericolo di vita: ebrei, zingari, disertori tedeschi, prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento. P. Cortese era il referente a Padova e forniva documenti falsi ai fuggitivi, utilizzando per questo le foto lasciate dai fedeli attorno alla tomba del Santo. Rapito da sconosciuti, fu torturato selvaggiamente perché rivelasse i nomi dei suoi collaboratori. Non lo fece e fu quindi ucciso, senza che si sia mai conosciuto il luogo della sua morte e della sua sepoltura. Nel suo caso, anche se forse non si può invocare il martirio per motivi religiosi, bisogna pur riconoscere l’offerta della vita per ideali umani di solidarietà e compassione, che chiedevano di agire contro una autorità illegittima e ingiusta.

Quanti casi simili potremmo ricordare di martiri civili, che hanno sacrificato la loro vita per mantenere fede a principi di onestà, solidarietà e giustizia. Anche qui, potremmo pensare che talvolta i gesti richiesti sono in fondo di poca importanza, in confronto con quello che potrebbe capitare. Vale la pena resistere a chi chiede di pagare il “pizzo” se questo può portare al sacrificio della vita? Vale la pena di denunciare chi commercia droga, se poi la banda degli spacciatori potrebbe rivalersi su chi ha provocato un episodio di repressione contro di loro? E scendiamo ancora di livello: vale la pena insistere per avere una regolare fattura per quello che abbiamo comperato o fatto fare, se questa richiesta mi costringe a pagare un prezzo più alto?

Non c’è dubbio che, per vivere la nostra vita in maniera coerente con ideali di dignità umana, la virtù della fortezza è di assoluta importanza. L’immagine con la quale abbiamo iniziato – una cinta di mura di notevole spessore – torna per confermare l’idea che siamo tutti chiamati a vivere una guerra, nella quale è necessario lottare per difendere una giusta causa. Nessuno può esimersi, per non diventare complice del tanto male che si commette quotidianamente. E se qualcuno, o piuttosto ciascuno di noi, deve riconoscere di non avere fino ad ora vissuto con coerenza questa virtù umana e cristiana, ebbene, il cammino della rettifica è aperto davanti a noi. Ce lo dice Trilussa, in una sua simpatica e profonda poesia:

Incuriosita de sapé che c’era

una Colomba scese in un pantano,

s’inzaccherò le penne e bonasera.

Un Rospo disse: – Commarella mia,

vedo che, pure te, caschi ner fango…

– Però nun ce rimango… –

rispose la Colomba. E volò via.

Siamo vivi, e quindi il meglio e il più utile della nostra vita sta ancora davanti a noi. Cambiare si può, correggersi si può. Gli ideali alti sono ancora a nostra disposizione e il lavoro da compiere è tanto, per cui nessuno può esimersi di prendere uno scudo e imbracciare una spada o, come la Fortezza di Giotto, una mazza ferrata. Le armi sono simboliche, ma la guerra è vera.