L’attacco alla nunziatura di Nairobi

Il Vescovo di Lodwar, nella regione dei Turkana, a Nord ovest dei Kenya, era allora l’irlandese Mons. John Mahon. Egli, attraverso la commissione diocesana “Giustizia e Pace”, aveva denunciato le malefatte del Commissario Governativo della Provincia, il quale si era appropriato di denaro destinato al completamento di strade e ad altre opere di interesse sociale. I giornali del regime avevano subito attaccato il Vescovo, lamentando che, invece di annunciare il Vangelo, egli stesse intromettendosi in questioni politiche.

Proposi ai Vescovi del Kenya di fare insieme qualche gesto di vicinanza verso il loro confratello, ad esempio recandoci a Lodwar, per dimostrare la nostra solidarietà con lui. Lì per lì, non ne nacque nulla, per difficoltà di programmazione. Per non rimandare troppo la cosa, decisi allora di andare da solo a Lodwar a fare una breve visita della diocesi, dal 13 al 17 giugno 1997. Dopo una notte trascorsa a Eldoret, raggiunsi Lodwar il sabato e vi rimasi la domenica, con l’intenzione di continuare poi verso il nord, per visitare alcune parrocchie. Il Vescovo mi chiese di incoraggiare i nostri cattolici, che si sentivano discriminati, insultati e anche fisicamente attaccati da gente del partito di governo. Visitando le diverse parrocchie cittadine, e poi celebrando la Messa della domenica in cattedrale, ispirandomi al Vangelo del giorno, insistetti molto sulla comunione tra tutti noi all’interno della Chiesa: siamo tutti parte di una grande famiglia, chi tocca il Papa tocca ciascuno di noi, chi tocca il Vescovo tocca anche il Papa e me … e così via, con delle affermazioni ovvie ma che, in quel contesto, suonavano particolarmente chiare e significative.

Dopo pranzo, passai ad una località al Nord di Lodwar, Loarengak, dove una famiglia missionaria di recente fondazione stava iniziando il suo apostolato. C’era da benedire una nuova barca per i pescatori del lago Turkana, e quindi ci trovammo nella casa parrocchiale, dove passai la notte. Il giorno dopo, celebrai Messa presto con il gruppo dei cristiani della parrocchia e quindi partii verso una seconda parrocchia, Lokitaung, ancora più a Nord.

Quando arrivai lì, il sacerdote, prete diocesano di Lodwar, mi disse che aveva ricevuto una chiamata telefonica urgente da Nairobi: c’era stato un attacco alla Nunziatura e avrei quindi dovuto telefonare al mio segretario. Dovetti prima aspettare che si esaurisse il programma di accoglienza: canti danze e discorsi. Inutile dire che dentro stavo male e mi chiedevo cosa fosse esattamente successo. Finalmente potei entrare nella casa parrocchiale, e usare il telefono a manovella che c’era in dotazione. Parlai con Jozef, il segretario polacco che era rimasto a Nairobi: durante la notte, la casa delle suore era stata attaccata da alcuni banditi, le suore erano state picchiate selvaggiamente e ora erano all’ospedale in cura e in osservazione. Avvisai subito Julius, l’autista, che era venuto con me. Chiesi di tornare immediatamente a Lodwar, dove avevamo lasciato la nostra auto, non adatta per le strade interne, e ci arrivammo verso l’una e mezzo.

Lì mi aspettava Mons. Mahon, che, mostrandomi un fax con copia dell’articolo uscito a proposito della mia omelia del giorno prima, commentò: “Questo attacco è la risposta alle tue parole di ieri”. Il tempo di preparare i bagagli, mangiare un boccone, sentire ancora Jozef per telefono e partimmo. Julius guidò in maniera magistrale, e, partiti alle due e mezzo, alle sette e mezzo eravamo a Eldoret. Il Vescovo Cornelius Korir mi stava aspettando. Cenai con lui, parlai ancora con Jozef e, alle otto e mezza ero pronto a continuare per Nairobi. Korir cercò di convincermi: “Non partire. Se sono dietro a te, questa è l’occasione buona per farti fuori”. “Ma tu pensi che siano capaci di tanto?”. “L’hanno già fatto, e per strada ci sono tanti punti pericolosi: basta un sicario appostato, o un camion che ti viene addosso. Non andare”. “Non posso restare: il segretario è solo, le suore sono all’ospedale. Devo andare”.

Partii e vissi quelle ore in un’atmosfera come di sogno. Ad ogni banco di nebbia, ad ogni camion che ci incrociava, ad ogni punto che ci costringeva a rallentare, mi dicevo: “Potrebbe essere qui, questa è l’occasione buona, ora ci siamo”. Mai come in quell’occasione Julius fu tanto veloce: alle undici e un quarto eravamo all’interno del giardino della Nunziatura, in un tempo molto inferiore delle normali tre ore e mezzo di viaggio.

Mettendo i piedi fuori dall’auto, sentivo una sensazione strana: ero ancora vivo, non era successo niente, e potevo occuparmi dei nostri problemi senza pensare ad altro. Quella notte restai in Nunziatura, dato che non potevo andare all’ospedale, che era chiuso, né avrei potuto chiamare la polizia, che era già avvertita del mio ritorno e sarebbe venuta il giorno dopo.

La mattina seguente andai all’ospedale, a visitare le suore, ancora in evidente stato di shock. Suor Donata aveva enormi ecchimosi su tutto il corpo; Suor Anna Maria aveva tre profonde ferite sulla fronte, sul braccio destro e sull’orecchio sinistro; Suor Ewa aveva solo ricevuto un pugno in faccia, ma era sconvolta, anche perché era arrivata da appena due giorni in Kenya. Quando, il giorno dopo, le suore furono dimesse dall’ospedale, non le feci tornare nella loro casa, a fianco dell’edificio principale della Nunziatura, perché erano ancora visibili le tracce della violenza che avevano subito. Occuparono le stanze degli ospiti e mangiarono con noi, anche perché volevo che potessero manifestare liberamente le loro sensazioni. Mi interessava ascoltare le loro reazioni, i loro racconti e le loro interpretazioni.

All’inizio si erano fermate all’idea del furto, ma dovettero constatare che i tre banditi avevano preso ben poco: forse era stata solo la scusa per giustificare la loro presenza. Poi mi dissero che, in realtà, essi volevano violentarle, e in effetti avevano provato a forzare le due che erano state assalite nella loro camera. Pare che non sapessero che c’era una terza suora, che era, come ho detto, arrivata solo da poco.

Qualche giorno più tardi, mentre mi recavo in segreteria, incontrai Suor Anna Maria nel corridoio. Aveva la testa bendata con un velo leggero, per non gravare sulle ferite, ancora fresche. Mi si avvicinò e mi disse: “Eccellenza, credo di aver capito perché questo è successo. Ma tu non avere paura per noi: fai quello che devi fare per il bene della Chiesa”.

Credo che avesse veramente colto il punto centrale di questa triste storia. Per me fu allo stesso tempo consolante sentire le sue parole di incoraggiamento, ma spaventoso avere la conferma che, per qualcosa che io avevo fatto, altre persone avevano sofferto e stavano soffrendo. Il tipo di avvertimento mafioso – “stai attento a quello che fai, perché possiamo colpire chi ti è vicino come vogliamo” – ha la tremenda capacità di condizionarti, anche inconsciamente.

Due delle suore andarono per qualche giorno a Mombasa. Nel frattempo, assistito da Suor Anna Maria, feci ripulire la residenza delle suore, facendone ridipingere le pareti e rinnovando e arricchendo la mobilia. Più tardi, con l’aiuto di un operaio polacco – ne parlerò –, ogni stanza fu dotata di un bagno indipendente.

Il 29 giugno seguente, per la celebrazione della Festa del Papa, le suore mi accompagnarono in Cattedrale e la loro presenza fu notata e sottolineata dai giornalisti presenti.