L’edificio della Nunziatura

Una volta arrivato a Nairobi, il 20 giugno 1996, dovetti rapidamente rendermi conto della situazione, a dir poco precaria, in cui si trovava la Residenza della Nunziatura Apostolica. L’edificio è enorme e imponente, con un grande giardino attorno, ed è fornito di altri due corpi indipendenti, l’uno per la residenza delle suore e l’autorimessa, il secondo per il personale laico di servizio.

Inaugurato nel 1962, era stato edificato con criteri di quel tempo: grandi spazi, non sempre molto utili, e grande impiego di materiali allora di moda, quali il linoleum per i pavimenti e la formica per la mobilia. Il salone, di dimensioni esagerate, aveva il pavimento di sughero: doveva essere elegantissimo da nuovo, ma, dopo tutti quegli anni, era macchiato, logoro e rattoppato in più punti. La cappella, abbastanza spaziosa, era stata aggiustata alla meglio per la visita del Papa, che era stato a Nairobi nel precedente mese di settembre: davanti all’altare antico di pietra, ne era stato aggiunto un secondo, di legno.

Quanto alla praticità della casa, nel primo piano avevamo a disposizione un corridoio dell’ampiezza di quattro metri, ma mancavano posti per collocare l’archivio e per conservare il materiale di cancelleria; l’appartamento destinato al segretario era fatto in modo che, per entrare in camera da letto, si doveva passare attraverso il bagno; la segreteria era ampia ma senza distribuzione degli spazi; non c’era un rubinetto per prendere acqua per lavare i pavimenti, che doveva quindi essere portata dal piano terra.

Il primo a richiamare la mia attenzione sulla necessità di fare degli interventi di manutenzione è stato il segretario, Edgar, che era stato a Nairobi già per quattro anni, e sapeva che sarebbe stato trasferito entro pochi mesi. Mi fece notare lo stato del giardino e della recinzione della proprietà: una siepe spelacchiata e in ampi spazi del tutto assente, rete di filo di ferro sfondata in più parti. Notai anche dei brutti pezzi di plastica verde, collocati qua e là contro la recinzione, e mi fu detto che erano stati messi lì “per proteggere la privacy del Papa”. Pensai che il pover’uomo avrebbe potuto meritare qualcosa di meglio!

Tornato a Roma a ottobre, parlai di questo con il Sostituto, Giovanni Battista Re, che era stato con il Papa a Nairobi. Mi incoraggiò, dicendomi che si fidava di me, perché aveva visto come avevo gestito la Residenza a La Paz: “Vai avanti con i lavori e, quando hai bisogno di soldi, chiedimeli”. E aggiunse: “E togli di mezzo quelle casse da morto!”

Una spiegazione per questo: i lampadari del grande salone erano dei cassoni di legno, molto simili a delle bare; le fioriere sulla scalinata verso il giardino avevano la tipica sagoma delle casse da morto: la decorazione sulla porta della casa delle suore ripeteva lo stesso disegno. Non so se l’architetto responsabile avesse qualche passione cimiteriale. So soltanto che l’ordine di Re fu eseguito, un po’ per volta, ma fedelmente.

Il primo intervento fu l’erezione di un muro di cinta, in pietra grigia. Non fu facile trovare una compagnia che potesse garantire un buon lavoro. Fu scelto un bravo impresario indiano e il muro fu fatto. Nel corso degli anni, abbiamo visto diversi muri di cinta caduti, per la violenza dell’acqua delle frequenti piogge torrenziali, ma il nostro ha retto e, per quanto ne so, dovrebbe essere ancora in piedi.