L’esame di licenza in diritto

Quando entrai nell’Accademia Ecclesiastica, era obbligatorio seguire i corsi di Diritto Canonico e ottenerne la laurea. Avevo già completato gli esami per la facoltà di Teologia e stavo lavorando alla stesura della tesi, con impegno e passione. Il Diritto non mi interessava, e mi iscrissi soltanto perché ne ero obbligato.

            Seguendo le lezioni, mi resi conto ben presto che la situazione era quanto mai sfavorevole. Era cominciato il lavoro della revisione del Codice, e quasi tutti i nostri professori facevano parte delle diverse commissioni per l’elaborazione del nuovo testo. Il che voleva dire che studiavamo i vecchi canoni, con la prospettiva che di lì a poco sarebbero stati cambiati, e ogni professore indicava come sarebbe stata la nuova versione, seguendo ovviamente le proprie opinioni in merito. Come risultato, ci trovammo come in mezzo a un fiume, senza sapere verso quale parte dovessimo procedere.

            Un caso esemplare fu il mio esame del primo anno, sul trattato dei religiosi. Non avevo mai frequentato le lezioni, perché allora ero ancora a Fano. Ebbi da un amico le dispense del professore, che, mi disse, amava le idee chiare. Sfogliai il malloppo, sicuro che non avrei potuto ancora affrontare l’esame, ma all’ultimo momento mi decisi e mi presentai. Il professore mi chiese di parlare delle relazioni dei religiosi con l’ordinario diocesano e io gli presentai le idee che il mio Vescovo, nei mesi del mio servizio con lui, aveva più volte espresso proprio su quel tema. Presi un bel voto e il professore concluse che si capiva che avevo seguito bene le sue lezioni. Non si accorse, fortunatamente, che quella era invece la prima volta che ci vedevamo.

            Un caso a parte fu poi il professore del trattato sui delitti e le pene. Si sapeva che era molto severo, con qualche punta di sadismo, e, senza il minimo dubbio, la sua materia era la più ostica e antipatica di tutto il Codice. Non persi nessuna lezione e studiai attentamente la materia, con una sempre crescente sensazione di sprecare il mio tempo. Alla fine del terzo anno, l’esame si sarebbe svolto nell’ambito della prova orale per la licenza.

            Ci fu una sorpresa: quando pensavamo che le lezioni fossero terminate, quel professore tenne una lezione in più, durante la quale spiegò un canone, dandone la sua interpretazione, che non si trovava né nel testo di studio né nelle dispense. E in più, in quel giorno fece l’appello e segnò i pochi presenti.

            Per me quella sui delitti e le pene fu la prima delle cinque prove previste per la licenza. Per cominciare, il professore mi disse di cercare il mio nome nel registro, dove appariva, appunto, la mia assenza all’ultima lezione. Mi chiese quindi di spiegare quel famoso canone, sul quale non fui capace di dire nulla. Mentre cercavo di capirci qualcosa, tanto per incoraggiarmi, mi disse: “Come può sapere queste cose, se non veniva alle mie lezioni?” Non potei fare altro che restare in silenzio.

            Quando passai di fronte al secondo esaminatore, gli chiesi di farmi respirare un momento: “Quello là mi ha massacrato!” Gli altri colloqui andarono bene, e seppi che avevo ottenuto un 8 e tre 10, ma la prima prova fu qualificata con 0. Per cui dovetti accontentarmi di un modesto 38.

            Al momento di discutere la tesi di laurea, mi fu dato il massimo dei voti, ma non la lode, perché non sarebbe stato possibile farlo, con un voto di licenza così basso.