Perché via da Roma

Ero già stato a Roma da otto anni, e da sei e mezzo lavoravo nel Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, oggi indicato come Seconda Sezione della Segreteria di Stato. Una circostanza molto particolare rese necessario il mio trasferimento ad altra destinazione.

            Il Nunzio Apostolico di uno dei paesi che mi erano stati assegnati ha cominciato ad avere una forte ostilità nei miei confronti. Ci eravamo incontrati per la prima volta in occasione della sua nomina, e mi era sembrato che ci fosse stata una reciproca sensazione di simpatia. Pensavo che avremmo potuto lavorare bene insieme, nei modi previsti dalla situazione, che poneva lui nel suo paese di responsabilità e me all’interno del Vaticano.

            Le cose cominciarono ad andare male quando, dovendo esaminare le proposte di provviste di diocesi presentate da quella Nunziatura alla Santa Sede, dovetti rendermi conto che esse erano talvolta – e forse anche troppo spesso – fatte male, con documentazione scarsa e con interpretazioni forzate. In questi casi, l’incarto, esaminato dal nostro ufficio, doveva essere presentato alla Congregazione per i Vescovi, che doveva approvare in principio la proposta, da presentare poi formalmente alla riunione mista dei Cardinali, membri appunto del Consiglio e della Congregazione. Ogni volta che dovemmo chiedere il loro parere, di fronte a provviste mal fatte, la Congregazione fu d’accordo con le nostre osservazioni e, in più di un caso, propose di respingere senz’altro la proposta al mittente. Il Nunzio reagì sempre male a queste risposte, e persino con violenza. Una volta ero presente quando il nostro Segretario, l’Arcivescovo Monsignor Achille Silvestrini, lo chiamò per chiedergli di modificare il suo lavoro: la risposta fu urlata, al punto che potei sentire anch’io, e il Nunzio minacciò le dimissioni se non si fosse fatto come diceva lui. Il giorno dopo la nomina, considerata improponibile, fu invece approvata dal Papa.

            Parlando con un amico che era allora collaboratore di quel Nunzio, gli chiesi come mai, in una proposta specifica, il secondo candidato fosse stato presentato con informazioni poste in allegato, invece che nel corpo del rapporto vero e proprio. La riposta fu: “Il Nunzio non voleva che a Roma si accorgessero che il secondo candidato era migliore del primo”. La scelta del Papa comunque cadde proprio sul secondo candidato, che fu un ottimo vescovo. Gli altri due candidati ricevettero ciascuno un significativo: “Maneat ubi est”, il che significa, semplicemente, che dovevano continuare a fare quello che stavano facendo ma che non si pensasse a loro come possibili vescovi.

            Sta di fatto che, in breve tempo, il Nunzio in questione si convinse – o ci fu qualcuno che mi accusò per giustificarsi? – che la colpa di tutto era soltanto mia, che avevo contro di lui una ostilità preconcetta. Me ne resi conto un giorno che, trovandoci insieme sull’ascensore, notai che non rispose al mio saluto e non mi guardò neppure, tenendo sempre lo sguardo rivolto in basso.

            Finalmente un giorno il Sottosegretario mi chiese di comunicare al Nunzio una decisione negativa presa dai Superiori, circa una complessa manovra, in definitiva assurda, che egli aveva immaginato. Lo chiamai per telefono e mi scatenò addosso tutta la sua ira, tenendomi all’apparecchio per più di trecento scatti (come funzionavano allora le chiamate internazionali) e dicendomene di tutti i colori, accusandomi in definitiva di essere l’unica causa di queste decisioni contrarie. Alla fine, forse avendo capito di avere esagerato, mi disse che si era trattato di un temporale estivo – in effetti eravamo in agosto – ma gli risposi che anche i temporali estivi bagnano a fondo.

            Andai immediatamente a vedere il Sottosegretario, che non sembrò sorpreso della cosa. Chiesi comunque di non dovermi più occupare di quel paese, vista la mancanza di fiducia del Nunzio nei miei confronti. Più tardi, parlandone con Monsignor Silvestrini, che era allora assente, presentai tre proposte: o che mi cambiassero i paesi di competenza, o che mi mandassero in una Nunziatura, o che mi rimandassero nella mia diocesi. La seconda ipotesi fu quella accolta e divenne effettiva alla fine dell’anno. E di questo parlerò subito dopo.

            Non vidi più il Nunzio in parola, ma vidi che, trasferito a Roma, fu fatto cardinale e ricevette un incarico di prestigio. In una conversazione che ebbi con Monsignor Silvestrini, durante una mia presenza a Roma per le vacanze, espressi la mia sorpresa per la promozione. Ricordo quasi visivamente il salto che fece per andare a chiudere la porta, in modo che la conversazione restasse riservata. Mi disse: “Avevi ragione tu, ha combinato un sacco di guai e alla fine guastava anche i rapporti con lo stato, senza nessuna istruzione da parte nostra. Abbiamo dovuto toglierlo di lì alla svelta”. Non potei fare a meno di replicare: “Ma a lui, per toglierlo di mezzo, l’avete fatto cardinale. Un altro – il cui nome ricordai, dato che conoscevo bene anche lui – che ha lavorato come servitore fedele della Chiesa, l’avete buttato fuori senza tante cerimonie”.