Cattedrale di Fano, 9 Ottobre 1999, 28ª domenica ordinaria A
Isaia 25, 6-10a
Filppesi 4, 12-14.19-20
Matteo 22, 1-14
“Il Regno dei cieli è simile a un re”. Questo inizio delle parabole di Gesù ci è familiare, dato che le parabole del Regno sono varie e tutte insieme servono a farci capire che cosa significa questa espressione, che ci indica insieme la nostra appartenenza, il nostro destino, la prospettiva di gioia alla quale siamo destinati in futuro e che nello stesso tempo dobbiamo costruire già qui in questa nostra vita.
Il banchetto di nozze è una immagine che ci parla del dono che Dio ha preparato per noi, della salvezza offerta a tutti, ma che molti ancora rifiutano, presi come sono da altri interessi e altre preoccupazioni. La sala piena di gente, chiamata da ogni parte per godere della generosità del re, ricorda l’universalità della salvezza, che è aperta a tutti, ma con la sola condizione di avere l’abito adatto. Ricordo che, per questo particolare, questa pagina non andava bene a babbo, che la contestava: “Purett, lu cu sapeva che ce vleva el vestit? No, gnent da fa: de fora, e pianto e stridore di denti”. Il fatto è che nelle parabole non dobbiamo cercare la logica in ogni dettaglio, ma un messaggio, che, in questo caso, è quello della necessità di una risposta adeguata, un cambio concreto di vita, quello che chiamiamo la conversione. I primi invitati hanno tradito la fiducia riposta in loro, e sono l’immagine del popolo eletto, ma anche tra i secondi, quelli chiamati dopo, che siamo noi, ci può essere chi si trova fuori posto, perché non prende sul serio l’impegno di adeguare il comportamento quotidiano alla chiamata divina.
Una parabola piena di gioia, quindi, ma con una esigenza forte. La ascoltiamo oggi, già al vespero della domenica, quando uniamo il nostro pensiero e la nostra preghiera nel ricordo di Don Paolo, a cinque anni dalla sua morte. Il ricordo di lui si accompagna a quello di tanti altri, in una litania che diventa ogni anno più lunga e più affettuosa. Non c’é altro modo per capire il dolore degli altri che quello di provare lo stesso dolore, direttamente, nella nostra propria carne. Solo allora si vede che le parole, anche se belle e sincere, servono a poco. La vicinanza silenziosa, la preghiera di fede, la disponibilità nel bisogno sono le cose che contano e che servono a consolare.
Cinque anni dopo, faccio ad alta voce due domande, che mi sono state rivolte. La prima è questa: cosa resta adesso della testimonianza di Don Paolo, quando i ricordi si sfumano e l’interesse diventa meno immediato? La seconda: è stato capace il tempo di curare la ferita che ha rappresentato per te, per voi, la sua perdita? Ambedue le domande vanno nella stessa direzione, al di là delle sensazioni soltanto umane, e toccano il terreno della fede, quello per il quale Paolo è vissuto e ha dato la sua vita intera.
Innanzitutto, cosa resta? Non è il caso di fare riferimento, in questa circostanza, ai ricordi di ciascuno, agli episodi forti e toccanti, o magari a quelli divertenti, che formano il tessuto di ogni relazione umana. Ciascuno di noi ha certamente qualcosa ancora da raccontare, dei contatti avuti con Paolo, qualcuna delle sue frasi taglienti, senza compromessi, delle sue condanne persino feroci, che lui poteva pronunciare perché la testimonianza della sua vita glielo permetteva. Oppure delle battute ironiche o allegre, nei momenti di serenità e di confidenza. Da parte mia, sento spesso la spinta che mi viene dalla coerenza che Paolo ha mostrato in tutta la sua vita, dalla sua fedeltà fino in fondo e, in momenti difficili o polemici, mi dico spesso: “Facciamo in modo che mio fratello possa essere fiero di me”. In genere, ne nascono dei guai, ma sono guai salutari.
Non è di questo che voglio parlare adesso, ma di qualcos’altro, ispirato, non a caso, proprio dal Vangelo. La parabola dice che il re inviò i suoi servi, a chiamare prima gli uni poi gli altri. Il lavoro dei servi non è stato facile, dato che, in qualche caso, sono stati insultati e persino uccisi, poi altri si sono sobbarcati il compito di chiamare ogni tipo di gente, anche di bassa lega, anche dai crocicchi delle strade. Ma, alla fine, hanno avuto la soddisfazione di vedere la sala piena, la festa che comincia, la gioia del re di avere ospiti e la gioia di tutti di essere nelle grazie del re.
Paolo, come ogni sacerdote e missionario, è stato uno di quei servi. È andato a chiamare, a insistere, perché molti, anche tra quelli che erano rimasti fuori fino ad allora, perché nessuno li aveva invitati, potessero conoscere la voce del Padre buono e potessero prendere parte alla festa della misericordia di Dio. Per questo, se ci chiediamo: “Cosa resta di lui?”, dobbiamo pensare a tutti quelli che sono stato l’oggetto dei suoi sforzi missionari, della sua ansia di evangelizzare, del suo desiderio di raggiungere tutti e di far conoscere a tutti il messaggio della liberazione conquistata da Cristo. È stato il desiderio che lo ha spinto ad andare in Brasile e che lo ha fatto andare avanti per tutti gli anni del suo ministero, con una energia che sembrava inesauribile e un entusiasmo che andava al di là della stanchezza e delle tante delusioni. Un desiderio che lo ha posseduto fino alla fine, quando, anche durante la malattia, cercava di toccare il cuore di chi era apparentemente lontano e che avrebbe potuto essere sensibile ad una testimonianza estrema.
In questo tipo di cose, i risultati non si vedono, non si possono contare o pesare, perché appartengono al mistero dello spirito umano, che solo Dio conosce. Ma, lo so, di questo lavoro da servo che va a chiamare, di strumento che cerca di far passare la Parola di un Altro, come me siamo in molti a poter dire, nel silenzio della coscienza, che, sì, di Paolo resta ancora molto ed è un qualcosa che non si esaurisce, perché continua come un’onda che si allarga, passando da noi ad altri ancora, e si diffonde con una forza che si rinnova sempre.
E l’altra domanda: è stato capace il tempo di curare il dolore della sua perdita? La mia risposta è semplicemente che certe cose non si superano mai; cambia forse il modo di sentirle, e quindi ci sia abitua ad una assenza. Ma la sensazione di vuoto e lo sgomento di fronte alla morte, a questa morte, resta e continua. Le manifestazioni esterne si addolciscono, forse, ma la pena interiore resta la stessa, e si interiorizza sempre di più, in un rapporto che è vero e in cui l’affetto e la tenerezza si ampliano, in cui il dialogo continua, ma in cui cresce insieme la coscienza dell’assenza e quindi della mancanza di una risposta immediata.
Tocchiamo qui il problema del dolore, il “perché” più terribile e più difficile, che ci accompagna sempre e che non trova mai una spiegazione soddisfacente, almeno quando si tratta del nostro dolore e non di quello di altri. Se ne possono dire tante, di cose, tanti argomenti utili e interessanti. Persino convincenti, quando guardiamo il tema nella sua teoria. Ma quando il dolore e la morte ci toccano direttamente, le domande restano senza risposta. Ascolto, seguo il ragionamento, lo accetto, tutto mi sembra vero, ma alla fine continuo a dire: “Non capisco”. Ci sono morti che si accettano più facilmente, ed è quando la vita ha avuto il suo corso e ormai ha poco da aggiungere. Ma quando vediamo la morte di bambini o di giovani o di persone ancora nel pieno delle loro energie, che potevano dare molto al mondo, alla Chiesa, a me, allora non capiamo e ci chiediamo dove è la logica, dov’è il progetto di Dio e quale ne è il senso. Ci chiediamo perché un tale spreco e perché Dio sia così poco attento ai suoi propri interessi. Ripensando alla morte di Paolo, o a tante altre morti, sarebbe così facile fare delle proposte alternative – perché lui, perché non altri, perché non io -, cercando di insegnare a Dio quello che lui stesso dovrebbe fare, per essere un Dio credibile. Ce ne sono stati molti, nella storia tragica dell’umanità, che hanno cercato di correggere gli “errori di Dio” con la loro propria logica: errori geografici, errori genetici, errori ideologici. Ne abbiamo una bella collezione, di questi che hanno cercato di mettersi al posto di Dio, anche in questo solo ultimo secolo del secondo millennio. Torna alla mente il libro di Giobbe, nella Bibbia: tanti tentativi di spiegazione per capire qualcosa, e alla fine tutti i ragionamenti cadono, non di fronte alle risposte, ma di fronte alle domande di Dio: “Dov’eri tu quando creavo il mondo? Che ne capisci tu di queste cose?”
Alcuni giorni fa, in un discorso, il Papa ha detto una cosa bella proprio sulla morte: “Nel suo livello più profondo, la morte assomiglia alla nascita: entrambe sono momenti di passaggio, critici e dolorosi, che si aprono verso una vita più ricca dello stato precedente. La morte è un esodo dopo il quale è possibile vedere il volto di Dio, proprio come un neonato, che è in grado di vedere il volto dei suoi genitori” (Giovanni Paolo II, 30 Settembre 1999). Se il bambino non ancora nato potesse esprimere un atto di volontà, egli probabilmente non vorrebbe lasciare la sicurezza e il calore del seno materno, in cambio di qualcosa che non conosce ancora e che, se lo conoscesse, potrebbe persino spaventarlo. La promessa di una vita più vera e più piena dopo la morte non toglie l’angoscia di fronte a un passo definitivo, che ottiene una giustificazione solo attraverso l’adesione di fede.
E qui torniamo quindi al punto di partenza: il Regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze. Possiamo leggere la parabola anche nella dimensione delle realtà ultime, nella prospettiva della consumazione piena del Regno nella vita eterna. L’invito di Dio può arrivare in un momento in cui ci sembra inopportuno. Di fatti, quel tipo di invito ormai definitivo sembra arrivare sempre fuori tempo. Ma per quelli che entrano nella sala della festa, c’è gioia, c’è il senso dell’opera finita, della missione compiuta. Per noi che siamo ancora in cammino verso la meta finale, la scomparsa di qualcuno che è per noi un punto di riferimento crea difficoltà, ci rende il cammino meno agile, più insicuro. Ma la direzione è quella, e sappiamo che la dobbiamo mantenere e sappiamo che, alla fine, quello che ci accompagna e nello stesso tempo ci aspetta è un Padre che ci vuole bene.
Due domande e due risposte di fede: non vedo i risultati di una vita, ma credo che ci sono e sono veri; non capisco il perché di una morte, ma credo che anche essa sia parte di un progetto di amore. I particolari della nostra storia umana, i diversi episodi di questa nostra avventura ci sfuggono, non li sappiamo spiegare, non siamo capaci di vederci una logica. Ma la fede ci parla di un Dio che è Padre, che ci ama e che ci precede sempre con il suo amore. Anche il dolore, quello che non sappiamo accettare, quello di fronte al quale non riusciamo nemmeno a dire: “sia fatta la tua volontà”, anche quello è parte di un piano di bene che nasce dal cuore di Dio Padre, che ci ama.
Paolo, e insieme con lui i tanti altri che ricordiamo nella preghiera, e per la cui assenza soffriamo, tutti loro vivono già nella gioia definitiva e, loro sì, capiscono ormai quello che per noi è ancora misterioso. Ma quello che anche noi sappiamo è che, nel ricordarli, nell’unirci a loro con la preghiera, nel sentire ancora viva la pena per la loro assenza dalla nostra vita, in tutto questo noi non offendiamo Dio, che capisce il nostro non capire. L’oscurità della fede è il nostro piccolo contributo a quel cammino di amore e di dolore che in Cristo ha significato il Getsemani, il Calvario e la Tomba. Sono momenti che aspettano anche noi, con il loro impatto drammatico, ma pur sempre con la promessa di un ultimo atto che è la Risurrezione, la vita vera, la vittoria totale.
“Il Regno dei cieli è simile a un re”: il re ci invita e, costi quello che costi, non mancheremo alla festa del suo amore.