Miguel Silva era un sacerdote boliviano sui quarant’anni, tornato da poco da Roma, dove era rimasto a lungo, conseguendo un numero imprecisato di titoli accademici, imparando un buon numero di lingue e trasmettendo attorno a sé l’impressione di essere destinato a grandi cose. Si diceva che nella sua cassaforte custodisse anche un anello episcopale, già pronto per ogni evenienza. Quando era tornato a La Paz, aveva chiesto e ottenuto una parrocchia importante. Che non gli si parlasse di andare nell’altipiano andino: negli anni all’estero aveva dimenticato la sua lingua materna, l’Aymara, e non si sarebbe sentito a suo agio nel lavoro con contadini poveri e ignoranti. Molto meglio trovarsi con i borghesi decentemente benestanti del rione del Gran Poder, un centro ben qualificato della città boliviana.
Tra i giovani che frequentavano la parrocchia, Fernando aveva intessuto una relazione più stretta con il sacerdote. Al punto che questi, incoraggiandolo a proseguire con gli studi universitari una volta finite le medie superiori, gli aveva promesso di aiutarlo con l’acquisto dei libri. Fernando pensava di iscriversi a medicina, lo fece e si presentò a P. Silva per averne il denaro per comperare i libri. Ne ottenne un rifiuto, non si sa perché.
Fernando ci rimase male e parlò di questo con l’amico Roberto, il quale suggerì subito una soluzione: suo fratello era il sagrestano della chiesa del Gran Poder e quindi aveva le chiavi per entrare in sagrestia. Per lui non era un problema prenderle di nascosto e quindi andare a rubare il denaro della colletta domenicale. Non si sarebbe trattato di altro che di mettere le cose a posto, prendendo quel che il Padre aveva promesso e che poi, mancando alla sua parola, non aveva voluto dare.
Senza pensarci oltre, i due giovani si procurarono guanti e passamontagna, per essere sicuri di non essere riconosciuti, qualora ci fossero stati incontri imprevisti e, nella notte tra il lunedì e il martedì – 4-5 giugno 1990 –, entrarono nella sagrestia. Lì ebbero la sgradita sorpresa di scoprire che avevano sbagliato i conti: il denaro della colletta domenicale era già stato portato via in mattinata, e depositato in banca come ogni lunedì. Ma sul bancone della sagrestia c’erano le chiavi della casa parrocchiale, a cui si accedeva appunto della sagrestia. Roberto propose di approfittarne e insieme salirono la scalinata che li separava dall’appartamento dove P. Silva stava dormendo. Entrarono nello studio, aprirono la cassaforte e presero tutto quello che c’era di valore: un calice, alcuni oggetti preziosi di vario tipo e, naturalmente, il famoso anello vescovile.
A questo punto, per qualche rumore di troppo che avevano fatto, P. Miguel si svegliò, uscì dalla camera e li scoprì. Ne nacque una colluttazione, nella quale il prete si rivelò più robusto di quanto i ragazzi potevano immaginare. Non riuscendo a controllarlo, e nella paura di essere riconosciuti, uno dei due prese una stanga di legno, che era lì per alcuni lavori di restauro in corso, e colpì più volte alla testa il P. Silva, che cadde a terra e rimase tramortito, mentre dalle ferite usciva sangue abbondante.
I ragazzi si preoccuparono di bendarlo alla meglio e lo lasciarono legato, ma seduto, nel bagno. Non pensavano che le ferite fossero gravi ed erano certi che, al mattino, chi lo avesse trovato si sarebbe preoccupato di farlo curare in maniera adeguata. Fatto questo, se ne andarono da dove erano entrati, gettarono nell’immondizia guanti e passamontagna e tornarono a casa.
La mattina seguente, giunse a tutti la notizia della morte di P. Silva. Gli operai che erano entrati in casa l’avevano trovato come i ragazzi l’avevano lasciato durante la notte, ma era ormai morto. L’autopsia rivelò che, a causa della perdita di sangue, la vittima era deceduta verso le quattro del mattino, dopo almeno due ore di sofferenza.
Roberto e Fernando confessarono ai genitori di essere gli autori della morte del sacerdote. La prima loro reazione fu di metterli in salvo in località lontane, presso dei parenti. Ma poi, commossi da un appello rivolto a tutti dall’Arcivescovo di La Paz, convinsero i due ragazzi a consegnarsi alla polizia. Cosa che i due fecero, e, in serata, furono condotti nella prigione di San Pedro. A quanto fu detto, nel costituirsi restituirono anche la refurtiva. Seppi più tardi che la restituzione era invece stata soltanto parziale.
Un mese dopo, incontrai Roberto e Fernando in prigione, ancora sconvolti per quanto avevano fatto e per le minacce dei compagni di prigionia, che li avevano subito soprannominati “matacura – ammazzaprete” e gli avevano assicurato che, oltre che criminali, erano anche scomunicati. Ci si era messo anche il cappellano del carcere, il povero P. Calcina, il quale, durante la celebrazione domenicale, aveva ricordato il “barbaro assassinio” di P. Silva, senza tener conto che i due “barbari assassini” erano in chiesa, in prima fila, e che prima della Messa erano andati a salutarlo e a spiegargli chi erano.
Dopo il nostro primo incontro, si erano rasserenati e, quando, il 24 dicembre dello stesso anno, mi recai in carcere per celebrare con i prigionieri la vigilia di Natale, furono loro due a farmi da chierichetti per la Messa.
A suo tempo, iniziò il procedimento per giudicare i due assassini. La famiglia del P. Silva voleva vendetta. Nel frattempo, basandosi sulla testimonianza del loro defunto parente, che aveva sempre detto di avere tanto denaro, i parenti vollero che la diocesi desse loro tutto quanto gli era appartenuto e, con insistenze addirittura indecenti, ottennero anche l’auto usata dal Padre, che pure era di proprietà della parrocchia.
Il primo verdetto fu abbastanza blando: gli anni di reclusione inflitti erano molti – una ventina, se non ricordo male – ma l’importante era che, con quel tipo di sentenza, era possibile ed anche probabile la concessione di una riduzione della pena e quindi della grazia. In queste condizioni, Fernando cominciò a frequentare l’università – dopo qualche tempo poteva anche uscire per seguire le lezioni – mentre Roberto si dedicava a qualche traffico – e anche lui usciva dal San Pedro, ma solo con la complicità prezzolata dei guardiani.
Il processo d’appello si svolse in modo molto diverso. Il dibattito fu brevissimo e le pressioni della famiglia sortirono l’effetto desiderato: la pena fu portata all’ergastolo, senza alcuna possibilità di riduzione o di grazia. I due ragazzi erano disperati, anche se cercai in tutti i modi di consolarli, promettendo interventi e pressioni. Di fatto, andai apposta a Sucre, sede della Corte Suprema di Giustizia e parlai con il Presidente della Corte per spiegare la situazione e chiedere una revisione della sentenza. Anche Mons. Gonzalo del Castillo, Vescovo Ausiliare di La Paz, che aveva allora cominciato a occuparsi di pastorale carceraria, fece dei passi in questa direzione e sperava di ottenere qualcosa. Ma non ci fu più bisogno di nulla.
Roberto approfittò delle sue uscite commerciali per organizzare la fuga. I guardiani se ne accorsero solo la sera, quando non si ripresentò, come il solito, al cancello della prigione. Inventarono la storia che il prigioniero era fuggito di notte scavalcando le mura, perché non potevano far sapere che invece era fuori con il loro permesso e in cambio di denaro. Roberto aveva comunque un giorno e una notte di vantaggio sugli eventuali inseguitori, e non fu più trovato. Di lui non seppi più nulla.
Fernando invece continuò a visitarmi in Nunziatura, quando si recava all’Università per le lezioni. Poi una domenica sera, quando ero appena tornato da un viaggio, fui raggiunto al telefono dalla madre, che piangeva: “Fernando è morto, si è ucciso”. Il giorno prima aveva comperato del veleno per topi, si era recato in un alberghetto ed aveva affittato una camera. Lì fu trovato il giorno dopo, steso sul letto e morto ormai da diverse ore.