Cattedrale di Fano, 9 Ottobre 1996
Galati 2, 1-2.7-14
Luca 11, 1-4
“Signore, insegnaci a pregare”. Rivolgiamo a Dio la stessa domanda dei discepoli, perché il dialogo con Lui, per tante ragioni, diventa spesso difficile, arido, addirittura senza senso. Il fatto è che quasi sempre la nostra invocazione è piccola, limitata a pochi interessi immediati, rivolta al mondo ristretto delle nostre realtà quotidiane.
Nella sua risposta, Gesù ci apre prospettive infinite: ci dice di chiamare Dio “Babbo”. E poi ci presenta l’immensa missione affidata a tutti coloro che partecipano alla sua vita divina: “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”.
Il regno di Dio è un dono, ma un dono che non possiamo semplicemente attendere ma che dobbiamo conquistare ogni giorno; è una costruzione che dipende da noi – o meglio: per la quale Dio vuole dipendere da noi. La nostra risposta alla vocazione cristiana è lo strumento necessario perché Dio stabilisca nel mondo il suo regno di amore, perché siano realtà concrete la giustizia e la pace conquistate da Cristo nella sua Pasqua.
San Paolo, nel brano della lettera ai Galati che abbiamo ascoltato, racconta i suoi sforzi per annunciare un Vangelo chiaro e senza compromessi di comodo. Addirittura ricorda lo scontro avuto con Pietro, che egli menziona con il nome che ne sottolinea il primato: Cefa, la Roccia. “Mi opposi a lui a viso aperto”. Ammiriamo la coerenza dell’apostolo, quando erano in gioco i valori della verità del Vangelo, che dovevano garantire la salvezza di “tutti i popoli”. La costruzione del regno di Dio ha bisogno di chiarezza e di sincerità, anche quando queste possono sembrare scomode. Anche quando possono infastidire ritmi abituali e modi di fare ormai acquisiti.
In questa circostanza, e di fronte agli stimoli che ci sono proposti dalla Parola di Dio della liturgia odierna, mi sembra bello condividere con voi alcune parole pronunciate da Don Paolo nel 1986. Ricordate forse che, quando chiese la cittadinanza brasiliana, questa gli venne rifiutata per due volte dalle autorità nazionali “per indegnità”. La città di Salvador de Bahia volle in qualche modo coprire la vergogna di quella decisione, dichiarando Paolo suo cittadino onorario.
Nella cerimonia di investitura, Paolo pronunciò un discorso che ho ritrovato proprio in questi giorni. Merita di essere letto per intero, ma ve ne faccio ascoltare ora alcune parti, che mi sembrano un commento adeguato alla Parola di Dio che è stata ora proclamata: così l’omelia di questa Messa sarà Paolo stesso a farcela.
Dopo alcune frasi di introduzione e di apprezzamento del popolo di Salvador, Paolo dice:
“Sono vissuto insieme a questa gente. Ero venuto per trasmettere il messaggio di Cristo, il messaggio dell’amore, ma devo riconoscere che ho ricevuto molto di più, perché questa gente vive già il messaggio di Cristo nel suo misticismo, nella sua religiosità, nelle sue credenze.
Ho imparato la bellezza dell’amicizia, dell’accoglienza, della famiglia. Avevo lasciato una famiglia in Italia, ho guadagnato qui una famiglia molto più grande. In molte delle vostrecase mi sento come a casa mia: per me voi siete i miei fratelli, i miei padri, le mie madri. Sono vissuto insieme a questa gente e ho avuto l’onore di partecipare alle sue lotte.
E se, in questo momento, siamo qui riuniti non è solo per festeggiare uno straniero che si sente baiano e che diventa cittadino di questa terra. La nostra presenza qui è un segno di protesta. Protesta contro il Servizio Nazionale di Informazione (servizi segreti brasiliani), contro la polizia politica”.
Ricorda qui le due richieste di cittadinanza che erano state respinte. E continua:
“Una delle ragioni per non concedermi la cittadinanza fu l’appoggio che avevo dato agli invasori del Marotinho. La mia partecipazione, in quell’episodio, fu di appoggiare e non di fomentare. Le famiglie del Marotinho occuparono l’area tra Fazenda Grande e San Gaetano, spinti non da un sacerdote ma dalla miseria, dai bassi salari, dalla speculazione immobiliare, insomma dalla politica del Governo. Se al Marotinho ci furono dei responsabili dell’invasione, questi furono le autorità che provocarono e continuano a provocare l’esodo dalle campagne e non danno condizioni minime di vita alla grande massa degli abitanti delle città. Ho appoggiato le famiglie del Marotinho non mosso da motivi o ideologie politiche, ma per la mia fede in Cristo, perché sono cristiano e perché sono sacerdote.
L’appoggio dato alla gente del Marotinho, dato a coloro che avevano perso la casa a causa delle piogge, dato a chi lottava contro la carestia o per conquistare una vera democrazia, fu ed è la conseguenza della fede in Cristo presente nel fratello, la risposta alla sfida che ogni giorno riceviamo dal volto di Cristo, sfigurato nel volto degli emarginati nella periferia delle città;
sfigurato nel volto dei disoccupati;
sfigurato nel volto dei giovani, che non hanno possibilità di successo né nella scuola né nel lavoro.
Volto di Cristo sfigurato nel volto dei bambini, segnati dalla povertà ancora prima di nascere;
Volto di Cristo sfigurato nel volto dei vecchi, emarginati dalla società del progresso;
Volto di Cristo sfigurato nel volto delle donne, considerate inferiori all’uomo;
Volto di Cristo sfigurato nel volto degli indigeni, i pochi che restano;
nel volto dei negri, che possono essere considerati i più poveri tra i poveri.
Volto di Cristo sfigurato nel volto dei contadini espulsi dalle loro terre;
nel volto di braccianti, che vendono la loro giornata per un niente;
nel volto di operai, impediti di organizzarsi per la difesa dei loro diritti”.
Don Paolo ricorda poi che un altro motivo per non ricevere la cittadinanza brasiliana era stata la pubblicazione di un bollettino delle comunità, che si volle considerare “sovversivo”. Per Paolo, l’opera di educazione era sempre stata fondamentale, in modo che la gente sapesse prendere coscienza della propria dignità di persone. E afferma:
“Cristo aprì gli occhi dei ciechi. Oggi noi abbiamo l’obbligo di aiutare le persone a rendersi conto della propria situazione, a chiedersi il perché di quello che sta succedendo e a organizzarsi in maniera indipendente per difendere i suoi legittimi interessi. Anche questa attività, genuinamente cristiana, richiamò l’attenzione perché è molto più facile dominare un popolo quando è ignorante, quando non è cosciente della propria dignità, quando non conosce i propri diritti, quando non sa difendersi. Questa attività continua a richiamare l’attenzione, oggi come ieri, perché l’autorità può cambiare di persona e di colore politico, ma difficilmente cambia di atteggiamento.
Gli interessi personali, o di gruppo, o di partito, fanno in modo che la gente sia considerata massa di manovra per realizzare la rivoluzione pianificata da un gruppo scelto di intellettuali. È molto facile e frequente decidere in una riunione del Consiglio o in una cellula di partito quello che è bene per la gente; è molto difficile lavorare perché cresca il livello della coscienza, perché sia il popolo a decidere la direzione da prendere”.
Cogliendo lo spunto dalle parole della Vergine Maria, Paolo descrive quale dovrebbe essere l’atteggiamento dei cristiani, come coscienza critica della società, sempre tesi a un ideale superiore, quale è la costruzione del regno di Dio:
“Due mila anni fa, una ragazza umile della Galilea diceva: “Dio ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc. 1, 52). È una sfida lanciata a tutti noi cristiani di lottare sempre perché queste parole diventino realtà, perché non succeda che quelli che stavano all’opposizione ed erano oppressi, diventino, un giorno al potere, oppressori dei loro fratelli.
La sfida che riceviamo spinge ciascuno di noi a non essere mai soddisfatto di quello che si fa. È normale che noi cristiani stiamo sempre all’opposizione dato che il progetto che abbiamo, il Regno di Dio, supera sempre le diverse realizzazioni. Siamo con voi all’opposizione, ma nel giorno in cui voi foste maggioranza, nel giorno in cui voi foste al potere, potete essere sicuri che vi combatteremo, perché questa è la nostra collaborazione, una collaborazione critica, che non può identificarsi con questo e quel partito, con questa o quella corrente o tendenza”.
Concludendo, Don Paolo dedicava il titolo ricevuto ai “tanti lottatori anonimi che con il loro sangue, il loro sudore stanno costruendo una società nuova“. Ne ricordava poi due per nome, l’uno assassinato da sicari e l’altro reso per sempre paralitico dalle percosse ricevute dalla polizia.
E concludeva: “Davanti a loro e davanti a voi, fratelli di Fazenda Grande, di Fonte do Capim, del Marotinho in Salvador, fratelli di Camaçari, di voi che siete qui presenti, rinnovo il mio impegno. Non sono pentito di quello che ho fatto in favore del popolo. Avendo l’occasione, farei lo stesso, che lo vogliano o no i servizi segreti e le autorità.
Continuerò a stare alla vera opposizione, criticando, lottando perché le nostre città diventino città di uomini, dove i cittadini possano vivere come fratelli, ed essere interpreti responsabili della loro storia”.
Sono parole forti, talvolta anche dure. Sentiamo vibrare in esse la santa violenza dei profeti, la coerenza sferzante di San Paolo, la verità luminosa di Cristo. L’invocazione che ripetiamo nel “Padre nostro”: “Venga il tuo regno” era così resa concreta da Don Paolo nelle circostanze della società del Brasile di quegli anni.
Di fronte alla Parola che abbiamo ascoltato, resta anche per noi una domanda che non può lasciarci tranquilli: a che cosa mi impegna ora e oggi, nelle mie condizioni di vita, nel mio ambiente di lavoro o di studio, l’invocazione: “Venga il tuo regno”?
Ognuno di noi ha una propria risposta da dare. L’esempio di Don Paolo ci serve di stimolo per uscire dalla passività di un’attesa sterile, per affrontare la lotta quotidiana con dedizione piena e appassionata, non seguendo mode o ideologie, ma semplicemente come risposta alla nostra vocazione. “Per la mia fede in Cristo, perché sono cristiano e perché sono sacerdote”.