Settimo anniversario della morte di don Paolo

Fano, Cattedrale, 9 Ottobre 2001

Giona 1,1-2.2,1.11
Luca 10,25-37

“Maria ha scelto la parte migliore”. Questa pagina del Vangelo di San Luca, con i diversi atteggiamenti delle due sorelle, è spesso utilizzata per cercare di chiarire il rapporto che c’è tra due stili di vita, ambedue legittimi e validi, presenti fin dall’inizio nella tradizione della Chiesa, e scelti tuttora per servire Dio e vivere il Vangelo: la vita attiva e la vita contemplativa; quella che si dedica soprattutto alle attività necessarie per la diffusione della parola di Dio, e quella di chi invece impiega tempo ed energie nella riflessione sulla realtà di Dio e al contatto con lui nella preghiera.

Marta, lo abbiamo ascoltato, si dà da fare con le faccende di casa, che sono necessarie se si vuole che l’ospite sia trattato bene e si possa sentire a casa sua; Maria invece lascia perdere tutto il resto per stare ad ascoltare Gesù, e in quell’ascolto e in quel contatto dimentica tutto il resto.

Il contrasto è evidente, ed è facile pensare che i due modi di vivere così rappresentati esistano davvero

e che siano in contrasto l’uno con l’altro. E che quindi ci possano essere quelli che vivono la loro vita cristiana dedicandosi sempre e soltanto all’attività, e mai alla contemplazione; e che dall’altra parte ci siano quelli che si dedicano alla contemplazione, senza la preoccupazione di lavorare nella missione di annunciare il Vangelo. Non è così e non può essere così.

Il lavoro missionario, del quale abbiamo tutti la responsabilità, non è un impegno come ogni altro: si tratta di portare ai nostri fratelli la salvezza che Cristo ha conquistato con la sua morte e risurrezione. Non è un lavoro che possiamo risolvere da soli, con la nostra capacità e attraverso la nostra buona volontà e le nostre qualità personali: toccare la coscienza della gente non è qualcosa che possiamo ottenere da noi, ma è soltanto opera di Dio. Quello che noi possiamo fare e cerchiamo di fare, là dove il Signore ci chiama a servirlo, è semplicemente preparare il terreno, in modo che la grazia del Signore possa toccare il cuore dei nostri fratelli ed essi possano accogliere il dono della fede. L’annuncio del Vangelo non cammina solo attraverso la predicazione e la testimonianza della carità, ma è sostenuto dalla preghiera continua, in modo che il contatto con Dio, che non può scaturire da mezzi umani, venga facilitato dall’intercessione. Con il nostro lavoro, suscitiamo le condizioni perché il miracolo della grazia possa avvenire; con la preghiera, imploriamo da Dio l’intervento che, se la libera scelta della persona interessata lo permette, dà luogo all’ingresso della salvezza nella vita di quell’uno.

Una cosa che è interessante notare, nell’episodio del Vangelo, è che l’atteggiamento delle due sorelle era comunque orientato a Gesù: l’attività di Marta voleva dare una risposta generosa a tutti i desideri che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, poteva avere; Maria non era assorta in una riflessione su se stessa, ma era all’ascolto dell’insegnamento del suo Maestro.

Nella vita cristiana, vita attiva e vita contemplativa sono sempre orientate a Cristo e al suo messaggio. Per questo un missionario non dovrebbe mai essere identificato, e non dovrebbe mai identificarsi, con un assistente sociale, perché il fratello che ha davanti a sé non è mai un caso, uno tra i tanti, semplicemente un numero che fa statistica, ma è sempre una presenza di Gesù: che è nel fratello sofferente, bisognoso, alla ricerca di risposte, con le ferite di un cuore offeso. Ugualmente, un contemplativo o una contemplativa non potranno mai essere confusi con un seguace dei metodi di meditazione trascendentale o di preghiera orientale, perché questi sono basati su un esercizio di astrazione dalla realtà, di dimenticanza dei problemi e delle esigenze della vita, e non su un dialogo interpersonale con Dio e con la sua creazione. La contemplazione cristiana non ha come fine il farci dimenticare l’esistenza del mondo e dei drammi che si vivono in esso, ma vuole invece darci gli strumenti più potenti per dare a quei drammi delle risposte concrete ed efficaci.

Pensando a Don Paolo e ai suoi lunghi anni di lavoro in Brasile, ricordo il ritmo, talvolta frenetico, della sua attività, e vedo quindi la necessità che egli aveva di lasciare tante cose da parte, per orientare tutte le sue energie all’urgenza del servizio del prossimo. In quelle condizioni, la tentazione di mettere da parte la preghiera è forte, ed è una tentazione facile, nella quale si cade spesso e volentieri. La scusa, che può valere in circostanze del tutto eccezionali, è quella di dirsi che: “il lavoro è la mia preghiera, l’impegno sociale è la mia predicazione, il servizio è la mia testimonianza di fede; e non ho quindi bisogno di dare del tempo all’incontro silenzioso con Cristo”.

Diverse volte avevamo discusso di questo, anche in riferimento ai testi che lui scriveva per la catechesi parrocchiale, ispirandosi a quella “teologia della liberazione” che ha qualche volta dato motivo a critiche, proprio per la difficoltà di capire quale potesse essere, in quel sistema, il ruolo della preghiera e della contemplazione. Delle ambiguità c’erano, e per questo le litigate tra di noi non mancavano mai, e davano sempre un doppio risultato: lui correggeva qualche espressione, ne aggiungeva qualche altra e chiariva alcuni orientamenti; io mi rendevo conto, una volta di più, che Paolo aveva in proposito delle idee molto precise e solide, e che le trasmetteva alla gente che serviva, in tutta la loro completezza.

Quando lavorava a Fazenda Grande – il quartiere della parrocchia che gli era stato affidato – una volta messa in piedi una modesta chiesetta fatta di pali di legno e di terra, aveva cominciato a celebrare lì l’Eucaristia, prima con un piccolo gruppo di persone, e poi con una comunità che diventava sempre più numerosa. In seguito, ogni giovedì, la gente si riuniva con lui per un’ora di adorazione: un’ora intera di preghiera silenziosa davanti al Santissimo Sacramento. Anche in questo caso, i pochi fedeli dell’inizio divennero un gruppo considerevole. E qualche tempo dopo, le ore di adorazione settimanale divennero due. Non ci vuole molto a capire che questa forma di preghiera, che umanamente non ha senso ed appare soltanto come una perdita di tempo, si giustifica solo in un piano di fede: quello in cui ha senso perdere tempo con Dio.

A Camaçari, Paolo aveva trovato una situazione molto diversa, dato che i sacerdoti che avevano lavorato lì prima di lui si erano dedicati molto alla promozione sociale, trascurando invece l’evangelizzazione e l’amministrazione dei sacramenti. Per questo, egli, ogni settimana, ha voluto dedicare l’intero giorno del venerdì alla preghiera ed al colloquio sacramentale della riconciliazione. La gente ne era stata avvertita e chi voleva approfittarne sapeva che Don Paolo sarebbe rimasto in chiesa tutto il giorno. Il primo anno, lo vedevo partire per la chiesa con libri e quaderni per appunti: lui c’era, ma la gente non si vedeva, e allora doveva trovare il modo di passare quelle ore: pregando, leggendo, scrivendo. Poi, pian piano, la situazione è cambiata: la gente cominciò a cogliere il messaggio, cominciò a capire il senso dei sacramenti, cominciò a capire il valore della preghiera e del tempo passato in chiesa. L’ultima volta che ero stato a Camaçari, Paolo non aveva bisogno di portare strumenti per trascorrere la giornata di venerdì in chiesa: la gente ci andava in continuazione e non gli lasciava nessun momento libero. L’unico tempo disponibile era a mezzogiorno, quando scappava a casa per un pranzo preso alla svelta.

Vorrei ricordare anche un altro episodio, successo diverso tempo prima della sua morte, quando, durante un periodo trascorso da Don Paolo in Italia, insieme con Don Stefano eravamo andati in un convento di suore di clausura, nel sud delle Marche, per qualche giorno di ritiro. Durante una conversazione con la comunità delle suore, una di loro ci disse che, poco prima, avevano chiesto a un missionario, anche lui al lavoro in un paese di America Latina, se sarebbe stato contento se esse avessero aperto una loro comunità nella sua missione. La risposta era stata: “Se venite ad aiutarmi nel lavoro della parrocchia, siete le benvenute; ma se venite per restare nella clausura, tanto vale che restiate qui”. Le suore c’erano rimaste male, e volevano sapere cose ne pensavamo noi. Paolo rispose subito e spiegò che, se le suore potevano aprire una loro comunità in America Latina, dovevano farlo per vivere laggiù la loro vita di contemplazione, e non cambiare la loro vocazione specifica. Il dono della loro preghiera e della loro testimonianzo sarebbe stato un arricchimento per la Chiesa locale, e non era affatto lo stesso vivere la loro vita in Italia o in Brasile. Quella era la risposta giusta, la risposta cristiana. Il parere dell’altro missionario, chiunque egli fosse e per qualunque ragione avesse detto quello che aveva detto, era semplicemente sbagliata, profondamente sbagliata.

Ci sono sempre dei momenti di crisi nella vita della Chiesa, e questi si manifestano anche con l’appassimento di una delle sue dimensioni fondamentali. Là dove tutti si rifugiano nella solitudine e nella contemplazione, sembra apparire un atteggiamento di fuga dal mondo e di rifiuto dell’impegno di evangelizzare. Dove tutti si dedicano all’attività e nessuno alla contemplazione, c’è certamente una lettura solo sociale della vita cristiana, che indica anch’essa una situazione malata. Storicamente, anche in anni recenti nella vita della Chiesa, ci sono state situazioni del genere, che stavano a dimostrare che qualcosa, in certe comunità, stava andando male. E lo sviluppo seguente di alcune Chiese locali ha dimostrato che quella concentrazione univoca e squilibrata delle vocazioni rivelava una mancanza di autenticità, che ha poi mostrato apertamente la grossa crisi che si stava preparando in esse.

“Maria ha scelto la parte migliore”: l’insistenza di Gesù è importante, perché noi tendiamo piuttosto all’attivismo e lasciamo da parte la preghiera; ammiriamo il lavoro intenso, e guardiamo con senso critico, o almeno con dubbio, la vita di contemplazione. Lasciatemi ricordare, allora, quello che Paolo diceva in diverse circostanze, proprio per sottolineare questa doppia dimensione della vita cristiana: “Mi sono sentito prete impegnato nell’evangelizzazione celebrando la Messa, annunciando la Parola di Dio, lavorando nella scuola professionale, protestando quando venivano distrutte le baracche delle famiglie”. Partendo per l’Italia, per la prima fase di cure contro il cancro, diceva alla sua gente: “Siamo divisi ora da chilometri di distanza, ma penso che ogni volta che ci uniamo nella preghiera, quando stiamo pregando e ascoltando la Parola di Dio, siamo vicini, perché Dio è di là di ogni distanza e ascolta le nostre suppliche in qualsiasi posto siamo. (…) Con molta fiducia dirigiamo a lui la nostra lode e anche il nostro ringraziamento, perché egli ha fatto cose meravigliose per noi. Talvolta noi pensiamo a Dio solo come a colui che deve offrirci qualcosa. L’importante per Dio è che noi seguiamo il suo esempio, che cerchiamo di spargere un po’ di amicizia, di amore, di comprensione, che cerchiamo di seguire la sua bontà, dato che il nostro fine sulla terra è appunto di costruire sempre di più nella nostra famiglia, nella nostra vita, attorno a noi, il Regno di Dio”. E infine, pochi giorni prima di morire, dall’ospedale di Bologna, diceva ancora alla gente di Camaçari: “È un periodo abbastanza duro ma sono tranquillo e offro a Dio le sofferenze. Siamo uniti anche alle sofferenze di Cristo e di tutti i fratelli, sapendo che hanno un valore immenso davanti a Dio”.

Proprio in questi giorni, quando l’enormità di quello che accade nel mondo ci fa sentire inadeguati e impotenti, non dimentichiamo questa dimensione di amore orante, e cerchiamo di opporre alle campagne dell’odio e della vendetta una campagna di amore, vissuta nella preghiera e nella contemplazione, nell’offerta delle sofferenze in unione con quelle di Cristo, nell’intercessione per i tanti fratelli nel dolore e nelle tenebre.

L’importante è guardare a Cristo, unirsi a lui, inserire del tessuto vivo in un organismo putrefatto, per dare una vita nuova all’impegno di trasformare il mondo attraverso una epidemia di amore.