Storie di barbieri

Poco lontano da casa nostra, in quella che allora si chiamava via Flaminia e oggi è via Roma, si aprì un piccolo negozio di barbieria, gestito da due giovani fratelli. Si sapeva che erano di una famiglia modesta, la cui fede politica, al momento della nascita dei tre figli, non poteva essere dubbia. Si chiamavano infatti Balilla, Italo e Littorio. L’ultimo, nei tempi nuovi, si era aggiustato con una V in cambio della L: Vittorio era un nome meno compromettente.

            Era però risaputo che i due barbieri, Balilla e Italo, erano convinti comunisti e debitamente anticlericali. Nonostante questo, il parroco aveva invitato le mamme della zona ad aiutarli, mandando da loro i propri figli. Cosa che si fece anche a casa nostra, anche se babbo ha sempre continuato ad andare dal suo barbiere al centro città.

            Ricordo che, la prima volta che andai per un taglio di capelli, tornai a casa con la testa impomatata di brillantina. Mamma mi riportò subito indietro, disse senza mezzi termini ai barbieri che non dovevano mai più mettermi in testa quella roba e poi, a casa, mi lavò i capelli, togliendo ogni traccia dell’untume offensivo. E da allora, i nostri capelli furono lasciati liberi da interventi estranei.

            Tra i due, io preferivo Italo, che rimase il mio barbiere fino alla sua morte. Quando tornavo a Fano per le vacanze, ci incontravamo sempre per un taglio, che, si raccomandava, doveva lasciarmi il modello – la “delma” – che gli altri barbieri, ogni volta in paesi diversi, dovevano rispettare. Quando poi si ritirò dall’attività, veniva a tagliare i capelli a casa mia, mentre le ultime volte, quando era ormai molto malato, fui io ad andare da lui.

            Negli anni, aveva ritrovato la fede. Era diventato religiosissimo e pregava tanto, per recuperare, diceva, tutto il tempo che aveva perduto. Accettò serenamente la malattia e fece una morte veramente da santo.