VI Festival Organistico Lauretano

Quinto concerto – Frédéric Ledroit

Loreto, 25 agosto 2011

Anche questa sera, ascolteremo un brano musicale ispirato a un testo latino che tratta il tema dell’Eucaristia. Quando il grande evento del Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona sta per cominciare – siamo a poco più di una settimana dal suo inizio – possiamo approfittare dell’occasione di questo concerto per prepararci a vivere con migliore conoscenza questo appuntamento di forte rilievo per la vita della Chiesa in Italia.

L’inno “Adoro te devote – Ti adoro devotamente” è, ancora una volta, attribuito a San Tommaso d’Aquino, e la sua composizione sarebbe stata occasionata, come quella degli altri testi che abbiamo commentato, dall’introduzione a tutta la Chiesa della solennità del “Corpus Domini”, voluta dal Papa Urbano IV nel 1264. Dato che questa serata si svolge nel giorno dedicato alla memoria liturgica di San Luigi IX, re di Francia, è opportuno ricordare che festa del Corpo e del Sangue del Signore – come più correttamente si chiama il giorno appunto del Corpus Domini – ha avuto la sua origine proprio in Francia. Jacques Pantaléon, nato a Troyes ed educato a Parigi, divenne arcidiacono di Liegi, e qui ricevette una lettera da una suora agostiniana, Giuliana di Cornillon, la quale, riferendosi a rivelazioni soprannaturali che aveva ricevuto, chiedeva che fosse istituita una festa specifica per il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Nel 1246 la festa fu istituita appunto a Liegi, per decisione del vescovo di allora, Roberto de Thourotte, ma poi fu necessario attendere che lo stesso Jacques Pantaléon divenisse Papa, con il nome di Urbano IV, perché la celebrazione fosse estesa a tutta la Chiesa. Un regalo quindi della Chiesa di Francia alla Chiesa universale: non il primo, sia ben chiaro, e certamente non l’ultimo.

Contrariamente ad altri testi, quello che consideriamo oggi non è di sicura fattura di San Tommaso, perché le prime testimonianze in proposito sono di mezzo secolo posteriori alla morte dell’Aquinate. Chiunque sia il redattore dell’inno, non c’è dubbio che la dottrina esposta ed anche lo stile usato possono essere fatti risalire al Dottore Angelico o alla sua scuola.

L’ “Adoro te devote” – lo dice già il primo verso – è un inno da cantare nell’adorazione eucaristica e come preghiera di ringraziamento dopo la Comunione. Non è quindi stato composto per essere usato durante lo svolgimento del Sacrificio Eucaristico, ma piuttosto alla fine di esso. Questo è in coerenza con il significato della festa del “Corpus Domini”, che rivolge un’attenzione specifica al culto eucaristico fuori della Messa. Abbiamo tutti presente che il gesto più importante di quel giorno è proprio lo svolgimento della grande processione eucaristica, attraverso le vie della città. Al termine della celebrazione della Messa, il Santissimo Sacramento è portato solennemente fuori dalla chiesa, quasi per una adorazione che si prolunga nel tempo e si allarga nello spazio. Nel Giovedì Santo, invece, l’Eucaristia è considerata nel suo aspetto sacrificale e conviviale, nel ricordo dell’Ultima Cena e nella preparazione del Calvario.

L’inno è formato da sette strofe, di quattro versi ciascuna. Come nelle altre composizioni tomistiche, e nello stile ormai di quel tempo, i versi non si basano più sui ritmi della metrica latina, ma seguono il nuovo stile del numero delle sillabe – in questo caso sono endecasillabi – e delle rime, sia pure talvolta approssimative. Abbiamo quindi “Deitas – latitas”, “subicit – deficit”, “intueor – confiteor”, “Domine – sanguine”, “aspicio – sitio”, “facie – gloriae”.

Se ricordate la melodia gregoriana, avrete notato che la musica, estremamente sobria e lineare, dà alla composizione un tono meditativo, di devota contemplazione, adatto quasi ad essere sussurrato più che cantato a piena voce. Anche per questo – ma qui esprimo un parere del tutto personale e da incompetente – mi sembra stonato il cercare di adattare questa melodia, così delicata e così, direi, fatta su misura per questi versi latini, a traduzioni italiane che, per entrare senza forzature nei ritmi musicali, devono stiracchiare le strofe, aggiungendo o togliendo o adattando parole, che, di per sé, non dovrebbero essere alterate.

Il contenuto teologico, coerente con la competenza dell’autore e la destinazione per il culto, è molto ricco e profondo. Ancora una volta, Tommaso, o chi per lui, ci accompagna a riflettere sul mistero eucaristico e sui suoi diversi aspetti. Già dalla prima strofa, possiamo cogliere l’elemento primario della riflessione: difatti per due volte si ripete lo stesso concetto, con il verbo latino: “latere – nascondersi”. “Adoro te devote, latens deitas / quae sub his figuris vere latitas” – “Ti adoriamo devotamente, Divinità nascosta /che ti nascondi veramente sotto queste apparenze”.

Il sacramento dell’Eucaristia è spiegato dai teologi attraverso il termine “transustanziazione”, difficile da dirsi ma ormai imprescindibile per la comprensione. Esso è formato da “trans = oltre, al di là” e da “substantia = sostanza, essenza”. La domanda che si pone è questa: come può Gesù essere realmente presente nei doni del pane e del vino? Ed ecco la risposta della Chiesa, attraverso la riflessione teologica: quando, durante la narrazione dell’ultima cena, viene pronunciata la formula di consacrazione, e quindi nel cuore della celebrazione eucaristica, la sostanza (ovverossia l’essenza) del pane e del vino, sotto l’azione dello Spirito Santo, si cambia nel corpo e nel sangue di Cristo, mentre l’aspetto esteriore del pane e del vino (che in termine filosofico si definisce: gli accidenti) rimane lo stesso. La presenza di Cristo è quindi reale ma invisibile e nascosta, e dura fino a quando durano le apparenze del pane e del vino, fino a quando cioè il pane è vero pane ed il vino vero vino.

Ecco quindi che l’inno insiste sul fatto che solo per fede possiamo riconoscere la presenza di Cristo: “Visus, tactus, gustus in te fallitur / sed auditu solo tuto creditur” – “I sensi della vista, del tatto e del gusto non riescono a manifestarti, ma io credo con certezza solo per quello che ho udito”. Perché io credo nelle parole del Figlio di Dio, che mi dice: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” e so che le sue parole sono vere.

Nella terza e quarta strofa, sono evocati due personaggi del Vangelo: il buon ladrone, che seppe riconoscere nel suo compagno di sventura il Figlio di Dio, nonostante che sulla croce la divinità di Cristo fosse nascosta; e l’apostolo Tommaso, che manifestò la sua fede, dopo aver visto le piaghe del Signore risorto. Ambedue ci sono di esempio per credere, anche se non possiamo avere la loro stessa esperienza: come loro, noi non vediamo la divinità, ma in più non possiamo vedere neppure l’umanità; non vediamo quindi i segni fisici della passione, ma rinnoviamo ugualmente la nostra fede in Cristo come nostro Dio.

Con una precisione che è degna di San Tommaso, la strofa seguente – la quinta – ricorda che l’Eucaristia è il memoriale della morte del Signore ed è il pane vivo che dà la vita – secondo le parole usate nel capitolo 6° di San Giovanni.

Nella sesta strofa, troviamo l’invocazione: “Pie pellicane, Jesu Domine = o pio pellicano, Signore Gesù”. Nell’iconografia cristiana, l’immagine del pellicano è tradizionalmente usata in riferimento a Gesù. Qui, nella Basilica di Loreto, ne abbiamo un esempio nella Cappella del Crocifisso, dipinta dal recanatese Biagio Biagetti. All’origine di questa rappresentazione è una leggenda, suggestiva anche se senza fondamento reale. Si credeva che, in tempo di carestia e con assenza di cibo, il pellicano aprisse il proprio petto a colpi di becco, per nutrire i suoi piccoli con il suo sangue. L’applicazione a Gesù, che ci salva con il sangue versato sulla croce e ci nutre con l’Eucaristia, è facilmente comprensibile.

L’ultima strofa, infine, torna al tono di raccolta contemplazione e di adorazione del mistero, mentre l’orante presenta la richiesta più importante per la vita di ciascuno. “Jesu, quem velatum nunc aspicio / oro fiat illud quod tam sitio: / ut te revelata cernens facie / visus sim beatus tuae gloriae” – “O Gesù, che ora ammiro velato, / prego che accada quello che tanto desidero (il latino adopera “sitio = aver sete”) /affinché contemplando te con il tuo volto rivelato, / a tale vista io sia beato nella tua gloria”.  In questa invocazione finale, sentiamo il riferimento al momento escatologico, perché il nostro destino eterno, con la visione diretta di Dio, è quello che, in definitiva, qualifica la nostra intera vita.

Ora ascolteremo una improvvisazione del maestro Frédéric Ledroit sulla melodia gregoriana dell’Adoro te devote, nella speranza di ritrovare, nella sua creazione, qualcosa della bellezza di pensiero e poesia già espressa nel testo che abbiamo commentato.  Grazie e buon ascolto.