VII Festival Organistico Lauretano

Quinto concerto – Johannes Goetz

Loreto, 21 agosto 2012

Ancora una volta, ho la gioia di potervi augurare un sincero benvenuto in questa Basilica della Santa Casa, per il concerto del maestro Johannes Goetz, nell’ambito del VII° festival organistico lauretano. Ho ricordato più volte che, quest’anno, questo evento ci aiuta nella preparazione alla visita del Papa Benedetto XVI, che tornerà a Loreto il prossimo 4 ottobre, per affidare all’intercessione di Maria lo svolgimento dell’Anno della Fede e la celebrazione del Sinodo dei Vescovi, dedicato al tema della nuova evangelizzazione.

Poiché ricordiamo il Papa, nel contesto di un concerto d’organo, mi piace condividere con voi alcune espressioni che Benedetto XVI ha pronunciato il 3 settembre 2006, a Ratisbona, in occasione della benedizione del nuovo organo nella basilica di Nostra Signora della Vecchia Cappella, che è stato battezzato con il suo nome. Cito il Santo Padre: “La musica e il canto sono ben più di un ornamento (magari superfluo) del culto, ma fanno parte dell’attuazione della liturgia, sono anzi essi stessi liturgia. La musica sacra solenne, con il coro, l’organo, l’orchestra e il canto del popolo, non è dunque un’aggiunta che incornicia e abbellisce la liturgia, bensì un’importante modalità di partecipazione attiva all’evento cultuale. Da sempre, e a ragione, l’organo è designato come il re degli strumenti, perché riprende tutti i suoni del creato e fa vibrare la pienezza dei sentimenti umani, dalla gioia alla tristezza, dalla lode al lamento. Inoltre, come tutta la buona musica, evoca, al di là dell’umano, la realtà divina. La grande varietà timbrica di questo strumento, dal piano al fortissimo, lo eleva su tutti gli altri. Esso può dare risonanza a tutti gli ambiti dell’esistenza umana. Le molteplici possibilità dell’organo possono in qualche modo ricordarci l’infinità e la magnificenza di Dio”.

Le espressioni di Benedetto XVI sono molto belle, e le possiamo fare nostre, anche tenendo conto che l’organo che abbiamo qui a nostra disposizione è molto più grande e ricco di quello inaugurato allora a Ratisbona. Non voglio fare del campanilismo organistico, ma diciamo pure che noi abbiamo il doppio delle loro 2448 canne.

Ma veniamo al testo poetico che ispirerà l’improvvisazione del maestro Goetz. Si tratta di una sequenza dedicata allo Spirito Santo, che, dal primo verso, è intitolata: “Veni Sancte Spiritus”, ovvero: “Vieni Santo Spirito”.

Nella liturgia eucaristica, la “Sequenza” è un inno che è cantato, dopo la seconda lettura, prima del canto al Vangelo. Le antiche tradizioni liturgiche ne hanno tramandato molte, ma solo cinque sono state conservate nel Messale Romano composto dopo il Concilio di Trento, nel 1570. Tutte queste sono ancora presenti nel Messale Romano promulgato da Papa Paolo VI nel 1970.

Le cinque sequenze sono: il “Victimae Pascalis” di Pasqua; il “Veni Sancte Spiritus” di Pentecoste; il “Lauda Sion” del Corpus Domini; lo “Stabat Mater” dell’Addolorata, il 15 settembre; e infine il “Dies  Irae” della Commemorazione dei defunti , il 2 novembre.

Non si conosce con certezza l’autore del testo del “Veni Sancte Spiritus”, ma l’attribuzione più probabile è  a Stefano Langhton, arcivescovo di Canterbury, quindi inglese, vissuto approssimativamente tra il 1150 e il 1228. È stata definita “Sequenza d’oro”, probabilmente per la limpidezza luminosa dei suoi versi. L’intero testo è composto da dieci terzine, con versi di sette sillabe che si concludono in rima. Anche la melodia gregoriana, con la quale la sequenza è cantata, ha una sua tersa semplicità, che ne rende l’esecuzione delicatissima e molto efficace, naturalmente se è eseguita bene.

La prima immagine che viene usata è quella della luce: “Veni, Sancte Spíritus,/
et emítte cǽlitus/ lucis tuæ rádium. – Vieni, Santo Spirito, / mandaci dal cielo/ un raggio della tua luce”.

Seguono tre invocazioni, con le quali lo Spirito è richiesto di venire a noi. Ora è chiamato con tre diversi titoli: “Veni, pater páuperum,/ veni, dator múnerum,/ veni, lumen córdium. –  Vieni, padre dei poveri, / vieni, datore dei doni,/ vieni, luce dei cuori”. Sembra ovvio che lo Spirito Santo sia la luce dei cuori, perché ci illumina alla comprensione delle verità della fede; capiamo anche che sia ricordato come datore dei doni, perché abbiamo presenti i sette doni dello Spirito Santo, studiati nel catechismo per la preparazione alla cresima. Potrebbe invece sorprenderci il titolo usato per primo: padre dei poveri, a ricordarci la preferenza che Dio manifesta sempre per chi è privo di tutto e manca di quella che oggi, un po’ pomposamente, chiamiamo protezione sociale. Chi è veramente povero, e sente attorno a sé l’indifferenza di quelli che hanno il sufficiente e il superfluo per la loro sopravvivenza, può contare su Dio, vero padre dei poveri, ai quali è promesso il Regno dei cieli.

La preghiera continua, ed enumera altre ragioni che ci invitano alla confidenza verso lo Spirito di Dio: “Consolátor óptime, / dulcis hospes ánimæ,/ dulce refrigérium. –  Consolatore perfetto, / ospite dolce dell’anima, / dolcissimo sollievo”. Qui troviamo quel termine che avevamo ricordato la volta scorsa: Consolatore, che interpreta parzialmente, ma comprensibilmente la parola greca παράκλητος. Fa piacere vedere che già nell’alto Medio Evo si interpretava così il greco, senza bisogno di lasciarlo nel suo incomprensibile termine originale.

La composizione poetica acquista ora una forza maggiore, contemplando le situazioni difficili della vita umana, nelle quali lo Spirito interviene con la sua forza di partecipazione e di consolazione: “In labóre réquies, / in æstu tempéries,/ in fletu solácium. – Nella fatica, riposo, / nella calura, riparo,/ nel pianto, conforto”. È importante sottolineare queste considerazioni, perché mostrano come, nella percezione del vescovo teologo, che scriveva questi versi, Dio appariva non tanto come l’essere perfettissimo e immutabile, e quindi intangibile dalle passioni umane, che hanno inventato i pensatori nelle loro astrazioni teologiche, quanto piuttosto come il Dio della Bibbia, quello che si definisce “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, e che si fa parte della storia dell’umanità e condivide con le sue creature le gioie e le speranza ma anche il dolore e le angosce del cammino della vita.

L’immagine della luce torna ancora, come invocazione a favore dei fedeli tutti, ma è una luce speciale, che deve riempire il cuore, ed ha quindi una evidente dimensione di amore: “O lux beatíssima, / reple cordis íntima/ tuórum fidélium. – O luce beatissima, / invadi nell’intimo/ il cuore dei tuoi fedeli”. Volendo fare un’osservazione critica alla traduzione utilizzata, che è quella del messale romano, potrei dire che il verbo “reple” tradotto come “invadi” a me sembra un po’ improprio. L’invasione fa pensare a qualcosa di indiscreto, addirittura di illegittimo, mentre il riempire indica un’azione perfettamente dovuta e necessaria, come diremmo dell’acqua che riempie una bottiglia e non l’invade.

Con la strofa seguente, si fa ancora un passo in avanti nella comprensione della presenza dello Spirito nella vita umana: “Sine tuo númine, / nihil est in hómine/ nihil est innóxium. – Senza la tua forza, / nulla è nell’uomo, / nulla senza colpa”. Capiamo quindi che si tratta di una realtà personale che ci accompagna e ci sostiene sempre, soprattutto nella lotta contro il peccato, che rappresenta per noi una possibilità sempre presente, ma pur tuttavia sempre negativa e mai accettabile.

Seguono due terzine che illustrano l’azione dello Spirito Santo proprio di fronte alle nostre debolezze e ai nostri difetti: c’è in noi della sporcizia, e lo Spirito ci purifica; c’è tanta aridità nel nostro cuore, e lo Spirito ci feconda con la sua presenza; ci sono ferite che sanguinano, e lo Spirito ci cura. Il nostro orgoglio ci rende duri e freddi di fronte ai bisogni del prossimo, e lo Spirito addolcisce la nostra durezza, scalda la nostra freddezza, e ci orienta di nuovo nella giusta direzione.

Come è facilmente comprensibile, e come ci si aspetta, in questo tipo di composizione poetica, le ultime due terzine sono di invocazione finale, con uno sguardo alla pienezza della presenza dello Spirito e con la considerazione del momento conclusivo della nostra vita, quello che giustifica quello che siamo, quello che facciamo e soprattutto quello che vorremmo fare ed essere.

Prima, l’invocazione dei sette doni: “Da tuis fidélibus, / in te confidéntibus,/ sacrum septenárium. – Dona ai tuoi fedeli/ che solo in te confidano/ i tuoi santi doni”. Il latino parla di “settenario”, per ricordarci che i doni dello Spirito Santo sono appunto sette, e li possiamo ricordare: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio. Ogni tanto, non è male ripassare quello che abbiamo studiato tanto tempo fa, almeno nel caso mio, e rischiamo di dimenticare. Non sarebbe neppure male rinfrescare alla memoria il significato di ciascuno di questi doni, ma questo esercizio ci porterebbe lontano da quello che dobbiamo fare ora.

Gli ultimi versi sono rivolti alle realtà ultime, a quelle cioè che ci attendono al termine della nostra vita. Ma il pensiero non è né triste né pessimistico, perché esorta lo Spirito a condurci alla gloria eterna, nel Regno di Dio: “Da virtútis méritum, / da salútis éxitum, / da perénne gáudium. – Dona virtù e premio, / dona morte santa, / dona gioia eterna”.

E ora, siamo pronti ad ascoltare l’improvvisazione del Maestro Goetz, nella speranza che il nostro organo, sotto le sue mani – e devo aggiungere anche: sotto i suoi piedi – possa rivelarci tutta la ricchezza di questo “re degli strumenti”, di cui ci ha parlato il Papa Benedetto.

Grazie e buon ascolto.